Trentatré giorni dopo il brutale assalto a Israele, che per Osama Hamdan, tra i vertici di Hamas, aveva lo scopo di fermare la normalizzazione dei rapporti tra Stato ebraico e Paesi del Medio Oriente, la situazione a Gaza appare chiara. Le forze armate hanno tagliato in due la Striscia e stanno penetrando in città. Mentre dal cielo, proseguono i raid per colpire postazioni e tunnel nemici. Lo scopo è distruggere la rete infrastrutturale dell’organizzazione che controlla Gaza, uccidere più miliziani possibile e decapitarne i vertici. Lo ha ribadito anche Jonathan Conricus, portavoce dell’esercito israeliano, che ha definito i leader di Hamas “morti che camminano”, mettendo di nuovo l’accento sul piano mai celato di Israele di eliminare tutti i capi politici e militari della sigla islamista. Tra questi, il principale obiettivo rimane Yehya Sinwar, capo di Hamas a Gaza, a cui il governo israeliano ha giurato vendetta. Per il premier Benjamin Netanyahu, per porre fine all’operazione militare si deve passare inevitabilmente per la distruzione dell’intera rete di Hamas. E per farlo, le Israel defense forces sono impegnate in una guerra che, come suggerito ieri da Benny Gantz, membro del governo di emergenza, non ha limiti di tempo.

Le Idf dunque non faranno sconti. E non li farà tantomeno Hamas, il cui consigliere per i media, Taher El-Nounou, ha espresso la speranza che “lo stato di guerra con Israele diventi permanente su tutti i confini e che il mondo arabo sia al nostro fianco”. Proprio in assenza di un’indicazione sulla fine delle ostilità, e per evitare che la guerra continui a provocare conseguenze drammatiche sui civili palestinesi (“in pochi giorni a Gaza abbiamo migliaia e migliaia di bambini uccisi” ha tuonato ancora Antonio Guterres), la diplomazia si muove da settimane per raggiungere quello che sembra l’obiettivo più urgente: le pause umanitarie. In questi giorni, Netanyahu è apparso molto restio sul punto. La richiesta di pause nei combattimenti, infatti, è stata letta come una concessione ai terroristi mentre i soldati israeliani sono a Gaza versando il loro tributo di sangue (32 caduti dall’inizio dell’invasione, 350 dal 7 ottobre).

Ma in queste ore, due elementi sono apparsi in grado di scalfire le certezze del governo. La prima è la pressione dei maggiori alleati, in particolare degli Stati Uniti, che hanno respinto il concetto di cessate il fuoco – come ha sottolineato il segretario di Stato Anthony Blinken a Tokyo – ma che hanno chiesto tregue umanitarie e localizzate. Un punto sostenuto anche dal segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. Il secondo elemento è rappresentato dal tema degli ostaggi. Ieri sono circolate le prime indiscrezioni sul negoziato per rilasciare tra le 12 e le 15 persone sequestrate da Hamas in cambio di una pausa umanitaria di alcuni giorni.

Le Brigate al-Qassam hanno mandato un video in cui hanno parlato dello scambio tra ostaggi e detenuti palestinesi come unica condizione, escludendo quindi l’ipotesi di un accordo che avesse come unica contropartita una tregua. Tuttavia, le informazioni raccolte dai media israeliani hanno raccontato lo sviluppo di negoziati coordinati da Egitto e Qatar per arrivare a un primo rilascio di ostaggi in cambio di una pausa. Anche se Netanyahu, in serata, ha smentito le indiscrezioni quantomeno su un imminente cessate il fuoco. La situazione umanitaria è al centro anche della conferenza di oggi a Parigi indetta dal presidente francese Emmanuel Macron nell’ambito del Forum sulla pace. Da oltralpe è stato sottolineato che il summit ha un valore operativo, senza entrare in discussioni politiche o sul futuro della guerra. Uno dei risultati potrebbe essere il consolidamento del piano proposto da Cipro per diventare hub di un corridoio umanitario per Gaza. Macron è apparso favorevole e in sede Ue se n’è discusso. Proprio a Cipro, intanto, è attesa nelle prossime ore nave Vulcano della Marina Militare Italiana, pronta a fornire soccorso ai civili palestinesi.