La tregua di quattro ora al giorno
Gaza, pause e negoziati sugli ostaggi. Si stringe il cerchio su Hamas
Nessun cessate il fuoco, respinto tanto dal premier israeliano Benjamin Netanyahu quanto dal governo degli Stati Uniti. Ma per l’amministrazione Biden, le pause quotidiane di quattro ore nei combattimenti, pur circoscritte al nord di Gaza, rappresentano un primo passo “nella giusta direzione”. Non è la tregua richiesta dal presidente Usa, che ha detto di lavorare per una cessazione delle ostilità di almeno tre giorni. E non è mancata la critica nei confronti di Netanyahu, la cui decisione, a detta del presidente Usa, è arrivata più tardi del previsto.
Tuttavia, per Washington questa è una prima vittoria a fronte di un’operazione militare a cui ha dato il più ampio sostegno ma che rappresenta anche un’enorme sfida. Biden, insieme al segretario di Stato Anthony Blinken e al capo della Cia William Burns, può ora continuare a lavorare per i due grandi obiettivi in agenda: liberare gli ostaggi e chiarire la “exit strategy” di Israele. Per ora, fondamentale è il primo aspetto. E insieme alle pase umanitarie di quattro ore sono arrivati segnali interessanti.
Nei giorni scorsi era circolata con insistenza l’indiscrezione sulle trattative mediate da Egitto e Qatar in cambio di una pausa nei combattimenti. Netanyahu aveva in parte smentito le voci nel suo punto serale con la stampa, ma l’ok alle brevi tregue umanitarie possono essere un indicatore di cui tenere conto. Ieri è poi arrivato il video dei due ostaggi mostrato dal Jihad islamico palestinese, che ha fatto intendere, nella sua drammaticità, che esiste un canale di dialogo quantomeno per un certo numero di sequestrati. Le immagini di Hanna Katsir e Yagil Yaakov sono state infatti seguite dalle parole del portavoce delle Brigate al-Quds con cui è stata promessa la loro liberazione “per ragioni umanitarie”. Barlumi di speranza che si uniscono a un altro fattore: il viaggio in Qatar del direttore della Cia e del capo del Mossad David Barnea. Al centro del summit la liberazione degli ostaggi e le contropartite da offrire.
Tutto dipende da Hamas, che trattiene la maggior parte dei rapiti il 7 ottobre. In attesa dei risultati di diplomazia e intelligence, si prova anche a immaginare il futuro della Striscia. Altro tema che interessa non solo gli Usa ma l’intera comunità internazionale. L’Autorità nazionale palestinese si è detta disponibile a prendere il controllo dell’exclave dopo la guerra, ma solo in cambio di un impegno concreto da parte Usa per la soluzione dei due Stati e che coinvolga Gaza, Gerusalemme est e Cisgiordania. Con quest’ultima area in ebollizione dopo il raid delle Israel defense forces nel campo profughi di Jenin che è costato la vita a diversi palestinesi. Intanto, la battaglia di Gaza procede senza sosta. Le Idf sono riuscite a penetrare ancora più a fondo nella città e hanno annunciato di aver fatto irruzione nel quartier generale di Hamas vicino l’ospedale di Shifa. Ieri, inoltre, lo Stato ebraico ha comunicato la conquista della “roccaforte” nemica nell’area di Jabaliya dopo una battaglia di dieci ore, attraverso un’operazione sia di superficie che sotterranea.
Questo a riprova della complessità di questa campagna militare, che si combatte tanto sopra che sotto la terra, nella famigerata rete dei tunnel di Hamas. Dall’inizio dell’assalto a Gaza, le Idf hanno distrutto 130 ingressi alle gallerie. Ed è proprio in questi cunicoli, soprattutto nell’area dell’ospedale, che secondo l’intelligence si nasconderebbero i vertici della sigla jihadista. Il doppio binario di servizi e forze armate è stato testimoniato anche dall’arrivo al fronte del capo di Stato maggiore, Herzi Halevi, e del direttore dello Shin Bet, Ronen Bar. Sul fronte interno, intanto, non si ferma la pioggia di razzi contro le città israeliane, sia dal Libano che dalla Striscia. Mentre un drone proveniente dallo Yemen ha raggiunto la città di Eilat. Ulteriore segnale del dinamismo delle forze filoiraniane in tutto il Medio Oriente, testimoniato anche dai droni indirizzati contro le basi Usa in Iraq.
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