Giustizia
George Pell, diario di prigionia di un cardinale innocente
Dagli ambienti principeschi dei palazzi pontifici alle tante piccole umiliazioni vissute in due penitenziari di massima sicurezza. Quella del cardinale George Pell è la storia di una caduta che induce a riflettere sulla caducità del potere terreno. Ma è una storia che non avremmo dovuto conoscere perché l’ex numero tre del Vaticano, finito dietro alle sbarre con l’accusa infamante di abusi su minori, non era colpevole.
Così decreto in maniera definitiva l’Alta Corte australiana nell’aprile del 2020, ribaltando all’unanimità la precedente sentenza d’Appello che aveva confermato la prima condanna a sei anni pronunciata dal tribunale di Melbourne. Un finale scontato per chiunque si fosse soffermato a leggere senza paraocchi pregiudiziali le carte di un processo dalle mille anomalie: l’accusa inverosimile di un abuso avvenuto in cinque minuti nella sacrestia di una cattedrale al termine di una Messa domenicale di più di venti anni fa, la smentita di una delle due presunte vittime prima di morire, le venti testimonianze a favore dell’imputato ignorate dalla giuria popolare per avallare completamente la versione piena di contraddizioni dell’unico accusatore.
“Solo perché alcune prove indicano l’innocenza non significa che la giuria non avesse diritto a condannarlo“, ebbe a dire la pubblica accusa davanti alla Corte Suprema lasciando ai posteri la frase-manifesto di una delle vicende giudiziarie più inquietanti della storia contemporanea del diritto in Occidente. Nei suoi 404 giorni di isolamento, Pell è riuscito a scrivere un “Diario di prigionia” di cui è uscito a metà maggio un primo volume in italiano (edizione Cantagalli) e il cui ricavato gli servirà a pagare le ingenti spese legali sostenute durante il calvario iniziato nel 2017. La notizia del rinvio a giudizio lo colse mentre era ancora a Roma e ricopriva l’importante incarico di prefetto della Segreteria vaticana per l’Economia.
Nonostante potesse avvalersi dell’immunità diplomatica, il cardinale scelse di tornare in Australia e di affrontare il processo come un agnello in mezzo ai lupi, mentre era già partita la macchina del fango mediatica nei suoi confronti. Una scelta che Pell spiega indirettamente nel libro quando riporta la sua volontà di far sì che “l’impossibilità delle accuse venisse dimostrata in base all’evidenza dei fatti piuttosto che il processo si concludesse a mio favore soltanto per via di un cavillo“. Il porporato è consapevole che sul banco degli imputati insieme a lui c’è l’intero cattolicesimo australiano e che “un verdetto di non-colpevolezza è molto importante per la Chiesa, ma anche per la credibilità del sistema giudiziario australiano qui da noi e oltreoceano”. Nel libro, l’autore non mette in discussione l’esistenza di un problema pedofilia nella Chiesa e, anzi, confessa di pregare ogni sera prima di addormentarsi per le vittime di questa piaga. Ma nel suo caso specifico percepisce che la giuria lo “avesse ritenuto riprovevole, meritevole di essere punito per questioni estranee al processo, e che ‘fosse successo qualcosa’“.
Scrive Pell in un passaggio significativo: “sono stato vittima della politica dell’identità; bianco, maschio, in una posizione di potere, appartenente a una Chiesa i cui membri avevano commesso atti vili e i cui leader, fino a poco tempo fa, avevano messo in atto un vero e proprio insabbiamento“. Una ricostruzione che fa tornare alla mente la sentenza d’assoluzione di un altro vescovo australiano, Philip Wilson, anche lui accusato di aver coperto un presunto abuso e anche lui rivelatosi innocente nonostante una pesante campagna denigratoria che lo costrinse alle dimissioni e ne deteriorò la salute fino alla morte. Prosciogliendolo dall’infamante capo d’imputazione, il giudice ricordò che la responsabilità penale è personale e che Wilson non poteva essere chiamato a scontare le responsabilità generali della Chiesa sullo scandalo abusi perché “le generalizzazioni su individui o istituzioni” sono “piene di pericoli soprattutto nel campo del diritto penale che è e deve essere sempre individuale“.
Anche Pell nella sua via Crucis giudiziaria ha avuto la fortuna di incontrare un giudice assennato, quel Mark Weinberg che pur messo in minoranza in Corte d’Appello, scrivendo una lunga e dettagliata relazione in dissenso dai suoi due colleghi contribuì probabilmente a far sì che l’Alta Corte accettasse il ricorso presentato dal team difensivo. Il “Diario di prigionia” è una lettura utile non tanto per sbirciare dal buco della serratura di un cardinale in carcere, ma per farsi un’idea delle conseguenze che una persecuzione mediatico-giudiziaria fondata sul nulla può avere sulla pelle di una persona. Più delle piccole umiliazioni della vita in cella, come le continue perquisizioni o le manette in aula, a ferire il cardinale sono le amarezze che arrivano dall’esterno: la revoca del titolo onorifico di vice patron della squadra di football del cuore che aveva contribuito a salvare, la rimozione della targa con il suo nome dalla sala riservata agli alunni più famosi dalla sua ex università, la campagna di denigrazione ai danni dei testimoni a lui favorevoli, persino la mancata consegna di un dottorato ad honorem ad un gesuita che aveva difeso pubblicamente la sua innocenza.
La sua condizione di uomo pubblico ed esponente di un’istituzione largamente malvista lo rese il bersaglio perfetto di un’offensiva mediatica spietata che – di pari passo con quella giudiziaria – mise da parte “ogni ragionevole dubbio” e finì per condizionare persino la sua esperienza dietro le sbarre: Pell, infatti, racconta di come il direttore del penitenziario, di fronte alla richiesta di avere una sedia più alta vista la sua imponente stazza, abbia opposto un rifiuto motivato dal fatto che non voleva essere accusato dalla stampa di avergli concesso un trattamento privilegiato. Il “Diario di prigionia” del cardinale si conclude temporaneamente con una preghiera affinché “tutti coloro che mi hanno sostenuto, e io stesso, riusciremo ad avere la saggezza per andare avanti nel migliore dei modi per far sì che quanto è accaduto a me non accada mai più a nessun altro australiano innocente“. E non dovrebbe accadere più anche in qualsiasi altra parte del mondo.
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