La visione che non c'è
Giorgio Ventre, Apple Academy: “I giovani non chiedono un posto fisso ma un posto giusto, in Italia il lavoro è gabbia, schiavitù”
Parla l’ingegnere e direttore scientifico della Apple Developer Academy di Napoli. “Le competenze digitali sono migliori se accademia e impresa collaborano. Napoli ha tutte le carte in regola per diventare una città dell’innovazione”

In occasione della Festa del Lavoro, abbiamo voluto parlare non tanto di quello che è il lavoro oggi, ma di quello che potrebbe (e dovrebbe) diventare. Abbiamo intervistato Giorgio Ventre, ingegnere e direttore scientifico della Apple Developer Academy, per ragionare su giovani, creatività, tecnologia e sul ruolo che Napoli può giocare nella grande trasformazione del lavoro.
Professore, qual è la missione della Developer Academy?
«L’Academy è una partnership pubblico-privata tra Apple e l’Università Federico II. La nostra convinzione è che le competenze digitali si formino meglio quando accademia e impresa collaborano. Insegniamo a progettare app non solo come esercizio tecnico, ma come forma di innovazione concreta nella vita quotidiana: prenotare un taxi, interagire con la PA, gestire una prenotazione medica. Non formiamo solo programmatori, ma creatori, inventori digitali».
I giovani di oggi sono davvero diversi?
«Molto. Sono più esigenti, più globali. Vivono connessi con il mondo, si confrontano con esperienze da Singapore al Delaware. Vogliono sentirsi coinvolti, riconosciuti. E il problema è che l’industria italiana è spesso ancora ferma a modelli vecchi: strutture gerarchiche, scarsa attenzione all’innovazione, poca valorizzazione delle idee. Per questo molti ragazzi preferiscono una piccola startup in cui poter contare davvero, piuttosto che essere un numero in una grande azienda».
Il lavoro viene spesso descritto come un obbligo. Lei è molto critico su questo.
«Sì, perché in Italia abbiamo una visione arcaica del lavoro, come gabbia, come schiavitù. Pensiamo ancora che un giudice possa imporre a una persona di tornare a lavorare per chi l’ha licenziata. Ma che senso ha? Il lavoro dovrebbe essere un’occasione di crescita, di espressione. È questo che chiedono i giovani: non un posto fisso, ma un posto giusto, in cui contare, crescere, esprimersi».
E l’Intelligenza Artificiale? È una minaccia o un’opportunità?
«Una rivoluzione. Ma siamo in ritardo. Nelle scuole e nelle università italiane si parla pochissimo di digitale. I nostri futuri docenti non sanno né usare né insegnare informatica. Eppure, l’IA è già tra noi: trasforma il lavoro del commercialista, dell’avvocato, del giudice. Dobbiamo gestire il cambiamento, non temerlo».
Nel vostro progetto di un «Festival dei nuovi lavori» si ragiona proprio su questi temi?
«Sì, ma senza retorica. Siamo stanchi della frase “il 40% dei lavori futuri oggi non esiste”. Il vero problema è che non ci prepariamo nemmeno per quelli che già stanno cambiando. Fare il giudice, l’avvocato, l’ingegnere, oggi, è diverso da dieci anni fa. Dobbiamo formare persone pronte, curiose, aperte al cambiamento».
E Napoli? Può davvero diventare una città dell’innovazione?
«Napoli ha tutte le carte in regola. È bella, accogliente, con una tradizione millenaria di apertura. Ma serve visione: recuperare spazi industriali abbandonati e trasformarli in hub innovativi, investire in università, attrarre talenti. Serve una scuola internazionale, ospedali con personale multilingue. Dobbiamo diventare ciò che in fondo siamo sempre stati: un melting pot come New York, ma mediterraneo. Ma per esserlo, dobbiamo dare spazio ai giovani. Sempre».
Che messaggio lascia a un ragazzo che oggi si sente perso?
«Studia. Anche fuori dall’università. Coltiva un sogno, anche piccolo. Che sia musica, arte, tecnologia, moda… Ma credici. Oggi puoi iniziare un corso online da casa, mentre lavori in un bar. Internet ti dà tutto. L’importante è cominciare. E crederci».
© Riproduzione riservata