Il welfare italiano è davvero universale e di qualità? Quali sono le sue criticità e quali le soluzioni possibili? A queste domande cerca di rispondere il diciottesimo Rapporto sulla sussidiarietà, curato dalla Fondazione per la Sussidiarietà, dedicato al welfare territoriale, che viene presentato oggi nella sede della Banca d’Italia alla presenza – tra gli altri – del governatore Fabio Panetta.

Per Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà e professore di Statistica presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca, qualsiasi riflessione sul tema deve partire dalla consapevolezza che il welfare diffuso purtroppo non può essere considerato una conquista acquisita. «In teoria sì, nella pratica molto meno. Il diritto a una vita dignitosa è garantito dalla Costituzione, ma i dati mostrano un’altra realtà: il 20% della spesa sociale è sostenuto direttamente dalle famiglie, solo il 30% dei bambini frequenta l’asilo (contro il 38% della media europea), e oltre un quarto delle famiglie con persone disabili è a rischio di povertà».

La narrazione è di un costo sociale da contenere…
«Si è diffusa l’idea che il welfare sia un peso economico insostenibile, ma la vera questione è un’altra: vogliamo una società che garantisca diritti sociali o preferiamo modelli, come quello americano, dove i servizi essenziali dipendono dal reddito? Il tema non è spendere di meno, ma spendere meglio».

Eppure di welfare e di ciò che lo compone si parla sempre in termini di bilancio. In realtà non è una questione economica?
«No, è culturale. L’Italia ha costruito il welfare in modo frammentato, senza una visione strategica. I tagli alla spesa non sono la causa della crisi, ma la conseguenza di una trasformazione più profonda: è venuta meno l’idea che è necessario rinnovare continuamente il patto sociale, cioè che l’equilibrio tra merito e bisogno deve essere continuamente ricercato».

C’è tutta una visione, anche politica, da rivedere?
«Bisogna decidere quale modello di welfare vogliamo: uno concepito come investimento fondamentale per il sistema paese o uno visto solo come una spesa sostenibile quando l’economia lo permette. I dati dimostrano che un sistema di protezione sociale solido non solo tutela i cittadini più fragili, ma contribuisce anche alla coesione sociale e alla stabilità economica del paese. Sarebbe anche una garanzia per la sua tenuta democratica».

Però un problema di risorse esiste e alla fine è lì che bisogna fare i conti…
«Il problema è che si è cercato di contenere la spesa tramite tagli orizzontali, e non tramite il suo efficientamento in vista della tenuta e/o ampliamento dell’offerta dei servizi e un miglioramento della loro qualità, soprattutto in considerazione dell’emergere di nuovi bisogni. Questa prassi da una parte ha perpetrato le disuguaglianze esistenti, e dall’altra ha anche impedito ai soggetti decisori di entrare nel merito della spesa verificandone la reale efficacia».

Il rischio è, però, che si finisca sempre per aspettare l’intervento pubblico. La cosiddetta società civile deve affermare un ruolo?
«È fondamentale. Il welfare non può basarsi solo sull’intervento pubblico. Servono reti sociali che riducano uno dei principali problemi del welfare: quello della solitudine e dell’isolamento. Il problema è che oggi dominano la paura e la diffidenza. Le persone forse non conoscono il termine “sussidiarietà”, ma ne comprendono il senso profondo: il bisogno di sentirsi parte di una comunità e di lavorare insieme per il bene di tutti».

Il vostro rapporto fotografa una situazione, ma individua anche percorsi e obiettivi…
«Il Rapporto propone una riforma su diversi livelli: la presa in carico della persona, che vada oltre la gestione parcellizzata dei singoli bisogni; un aumento degli investimenti in capitale umano, con più risorse per istruzione e formazione; una collaborazione più efficace tra pubblico e privato sociale, fuori dalle logiche di mercato; un utilizzo più razionale delle risorse, superando il criterio della spesa storica».