La Corte di giustizia Ue, cui aveva fatto ricorso la Commissione europea, con una sentenza del 15 luglio u.s. ha dichiarato non conforme al diritto dell’Unione il regime disciplinare dei giudici in Polonia, in quanto ne sarebbe lesa l’autonomia e l’indipendenza. La Commissione aveva, subito dopo, riaffermato che «la legge Ue ha la primazia sulla legge nazionale. Tutte le decisioni della Corte di giustizia Ue, incluse le misure ad interim, sono vincolanti per gli Stati membri» e precisato di aspettarsi che «la Polonia garantisca che tutte le decisioni della Corte di giustizia europea siano applicate correttamente» dicendosi pronta «ad usare i suoi poteri, per garantire la salvaguardia e l’integrità della legge dell’Ue». La risposta è arrivata il 7 ottobre con una sentenza della Corte costituzionale polacca, secondo la quale «il tentativo di interferire nell’ordinamento giudiziario polacco da parte della Corte di giustizia dell’Unione europea viola i principi dello Stato di diritto, il principio di supremazia della Costituzione e il principio di conservazione della sovranità nel processo di integrazione europea».

La conservazione della sovranità in capo agli Stati membri implicherebbe, dunque, che la legge polacca prevalga sulle sentenze e sugli atti normativi dell’Unione europea. La presidente della Commissione, la tedesca Ursula von der Leyen, ha subito affermato: «I nostri trattati sono molto chiari. Tutte le sentenze della Corte di giustizia europea sono vincolanti per le autorità di tutti gli Stati membri, compresi i tribunali nazionali. Il diritto dell’Ue ha il primato sul diritto nazionale, comprese le disposizioni costituzionali. Questo è ciò che tutti gli Stati membri dell’Ue hanno sottoscritto come membri dell’Unione europea». In realtà, non è la prima volta che si apre un conflitto tra Corte di giustizia Ue e Corti costituzionali nazionali. Apripista è stata proprio la Corte costituzionale tedesca. La Corte di giustizia Ue, con una sentenza dell’11 novembre 2018, aveva affermato la piena legittimità del programma di acquisto di titoli del debito pubblico (cd. quantitative easing) da parte della Bce. Ciononostante, la Corte costituzionale tedesca, con una sentenza del 5 maggio 2020, smentendo la Corte di giustizia, aveva rivendicato il proprio diritto di sindacare la proporzionalità del programma di acquisto di titoli del debito pubblico, ed aveva dato alla Bce tre mesi per fornire gli opportuni chiarimenti. In un colpo solo, dunque, ha messo in discussione non solo la prevalenza del diritto dell’Unione europea e delle decisioni della Corte di giustizia, ma anche l’autonomia e l’indipendenza della Bce.

Più di recente, poi, i giudici di Karlsruhe sono intervenuti con una risoluzione per vietare al Presidente federale di firmare la legge di approvazione del programma di aiuto, varato per fronteggiare la pandemia (cd. New Generation Eu), in attesa di una valutazione di compatibilità con le norme costituzionali tedesche da parte della stessa Corte. Nella motivazione si leggeva, in particolare, che «per salvaguardare il principio della democrazia, è indispensabile che i fondamenti della divisione di competenze nell’Unione europea vengano rispettati. La finalità dell’agenda europea di integrazione non deve minare il principio di attribuzione, uno dei principi fondamentali dell’Unione europea». Questo perché, come la stessa Corte aveva affermato nel settembre 2012, in occasione della istituzione del Mes, «le decisioni sulle entrate e le spese pubbliche sono una parte fondamentale della capacità di uno stato costituzionale di dare forma a sé stesso in maniera democratica».

Il conflitto tra Istituzioni europee e Corte costituzionale tedesca si è poi risolto con pragmatismo, nel senso che le Istituzioni europee hanno acconsentito al controllo che la Corte ha rivendicato e quest’ultima, a sua volta, ha concesso disco verde. È evidente che una tale soluzione ha lasciato aperta la questione di principio. Anzi, è inevitabile osservare che il precedente della Corte costituzionale tedesca, e perciò di un paese che, secondo le categorie correnti, non può essere accusato di sovranismo, indica che la questione va al di là del conflitto contingente, anche se molto delicato per la materia, con la Repubblica polacca. Essa, in realtà, riguarda un problema di fondo: il deficit democratico che contraddistingue le Istituzioni europee e la loro perenne incompiutezza. Che questa sia la vera sostanza della questione lo si coglie nelle parole della stessa Corte tedesca, la quale ha, difatti, osservato che «gli Stati membri rimangono i “Padroni dei Trattati” e l’Unione europea non si è evoluta in uno stato federale».

Il principale punto di debolezza dell’Unione europea è, dunque, anche con riferimento ai rapporti interni la mancanza di un’unità politica, cui, inevitabilmente, si affianca anche la mancanza di una identità collettiva europea. Il cammino dell’integrazione, interrottosi nel 2005 con la bocciatura da parte dei francesi e degli olandesi dei referendum volti alla approvazione di una nuova costituzione europea, ha lasciato l’Unione europea in mezzo al guado, facendone una entità priva di autentica soggettività e senza una precisa fisionomia non solo dal punto di vista giuridico, ma anche dal punto di vista politico, economico e sociale. Il che la rende, rispetto alle tensioni interne, un vero e proprio colabrodo. Si tratta di un evidente elemento di debolezza che non può essere nascosto dagli aggiustamenti da piccolo cabotaggio, cui finora i politici al vertice delle istituzioni europee hanno fatto ricorso.

Chi ha a cuore la prospettiva europea, l’unica capace di consentire all’Europa di avere un ruolo nel mondo globalizzato dell’immediato futuro, deve essere consapevole che il mantenimento della situazione attuale costituisce un potentissimo fattore di disgregazione. Basta pensare a quello che dice Zemmour, il giornalista francese di estrema destra che nei sondaggi ha superato Marine Le Pen, commentando la decisione della Corte polacca: «È tempo di restituire al diritto francese il suo primato sul diritto europeo…. La Francia deve rifiutare che delle giurisdizioni straniere le impongano la loro politica e la loro ideologia». Non riprendere la marcia per la costruzione di un’Europa soggetto politico, come vagheggiato nel Manifesto di Ventotene, significa non credere nel progetto europeo. È questo il vero problema che pone la sentenza della Corte costituzionale polacca e che, prima di essa, ha posto la Corte costituzionale tedesca.