Grande riforma, grande incertezza. E non poca confusione di piani. La commissione Affari costituzionali in Senato dà luce verde con priorità assoluta all’emendamento del governo che riscrive l’articolo 92 della Costituzione e che, quindi, sancisce l’elezione diretta del presidente del Consiglio. Si corre. O meglio si finge di correre: la sensazione è che Giorgia Meloni, che non può certo dirlo, calcerà la palla della riforma in tribuna: solo dopo le Europee, o meglio dopo l’estate si aprirà la partita vera. Ad agevolarla, il calendario d’Aula che vede il Parlamento avanzare lento pede – con poche sedute tra Camera e Senato – verso il mese di maggio, quando le campagne elettorali renderanno obbligatorio uno stop istituzionale. L’approvazione del Premierato in prima lettura a Palazzo Madama avrà solo il compito di traghettare il testo a Montecitorio dove dovrà avere inizio il dibattito vero.

Ma quando? Dalla ripresa dei lavori, archiviato il voto europeo, mancheranno poi poche sedute alla pausa estiva. A settembre – con la prospettiva del secondo passaggio al Senato – saremo con ogni probabilità ancora in stallo sugli interventi correttivi. Al netto dell’agenda delle Camere, utile a capire quale sia la reale dimensione temporale del dibattito, l’intervista al Corriere di Alberto Baldoni che ieri ha aperto il capitolo del dialogo con l’opposizione sui tre nodi centrali ancora aperti – la soglia di premio della coalizione vincente, il nuovo sistema elettorale, l’eventuale doppio turno – rimette al centro della trattativa parlamentare con le opposizioni il terzo punto: il ballottaggio. Ne abbiamo chiesto modalità e criticità ad uno studioso dei sistemi elettorali che sulle riforme istituzionali è da sempre in prima linea e che non lesina le osservazioni all’iter scelto dal Governo: il professor Giovanni Guzzetta, costituzionalista e ordinario di Istituzioni di diritto pubblico presso il Dipartimento di Diritto Pubblico dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata.

Professore, non è un dettaglio, a questo punto, iniziare a parlare di doppio turno…
«Il primo problema è di metodo. Le riforme sono materie difficili, ogni dettaglio può cambiare tutto. E quando parliamo di premierato in particolare, ogni dettaglio conta. Se tu devi negoziare con l’opposizione, la possibilità di trovare una quadra si complica. A quel punto va posta una questione di merito, che tipo di ballottaggio scegliere».
Sarà complicato, ma il vantaggio di fare una riforma condivisa non è da poco, per chi vuole sbandierare l’avvio della Terza Repubblica.
«Certo, sarebbe importante arrivarci in modo non divisivo. Il tema è che fino a adesso la storia ci insegna che anche quando c’era un accordo iniziale e si è proceduto con la convergenza di maggioranza e opposizione, l’idillio è durato poco. Le opposizioni si sfilano e la maggioranza si trova ad affrontare dei referendum con testi più blandi e meno intellegibili da parte della maggioranza dei cittadini».
E Meloni, che lo sa, tiene il punto?
«La maggioranza resiste su posizioni più ferme perché ha il forte timore che le opposizioni decidano di sfilarsi. In quel caso il compromesso al ribasso peggiorerebbe la riforma. Il rischio per la maggioranza è alto».
È valso così anche per il Referendum di Renzi del 2016…
«Lì Renzi aveva incassato il parere favorevole di Berlusconi, capo dell’opposizione, che poi come è noto ha rotto quel patto. È la storia di tutte le riforme. La Commissione Bozzi nacque con un accordo, poi i socialisti si filarono. La Bicamerale di D’Alema sembrava avere ampio consenso, poi si è ritrovata tutti contro».
Il rapporto tra legge elettorale e forma di governo non è secondario, possibile che il governo tenga ancora questa carta coperta?
«Ci sono cose su cui è urgente riflettere. Il sistema elettorale che si sceglierà è fondamentale. Anche lì rimane lo stesso problema: dialogare con l’opposizione è fondamentale ma anche rischioso».
Opposizione che peraltro parla con più voci.
«Vero, e questo complica. Le opposizioni dovrebbero trovare un accordo al proprio interno. E però siccome esiste una competizione tra le opposizioni, questo accordo sarà difficile, perché qualcuno pensa di avere più consenso attraverso lo scontro che non attraverso il confronto».

Aiuterebbe fare chiarezza sul doppio turno.
«Intanto ci sono tanti doppi turni, per cominciare. Ci può essere un doppio turno del premier, che si trascina la maggioranza parlamentare. C’è un doppio turno elettorale che può essere di collegio o con premio di maggioranza. Mi sembra che su questo nessuno voglia svelare le carte, ammesso che qualcuno le abbia».
La sensazione è che si vogliano traguardare le Europee per poi fare la riforma sulla base dei numeri assegnati da quelle urne…
«Sì, Meloni e Schlein hanno bisogno del metro del voto. E le Europee potrebbero offrire sorprese in tutti e due i campi. Immagino che il governo voglia arrivare alle Europee con un risultato provvisorio che vuole presentare agli elettori come un anticipo di riforma. Per questo c’è questa accelerazione. Questione più legata alla politica che alla tecnica».
Le elezioni sono acceleratori o freni alla grande riforma?
«Tutte e due le cose. I passaggi elettorali sono elementi di disturbo, dal punto di vista tecnico. Questo primo troncone della riforma – se la maggioranza ci si mette come un sol uomo, e dice: ‘del resto discutiamo dopo – ce la può fare ad approvarla entro l’estate. Il tema di fondo è che tutti vorrebbero una riforma condivisa ma fino all’ultimo sarà difficilissimo averla».
Il premierato fa titolo ma la riforma elettorale, meno accattivante, è pur sempre indispensabile…
«Il vero incubo per il costituzionalista è quello della frammentazione istituzionale. Se si punta al 40% per la coalizione ma non ci si arriva a causa della frammentazione, si può verificare la condizione di un premier forte con una elezione diretta molto legittimante ma con un parlamento che è un Vietnam. Quello è un rischio».
A maggior ragione va fatta una riforma elettorale che marci di pari passo con il premierato.
«Certo. Se il sistema elettorale non produce una maggioranza coerente con il premier, è il caos. Lo sanno bene gli israeliani. Una forma di ballottaggio andrà presa in considerazione e una scelta va fatta presto».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.