Esteri
Hamas respinge la proposta sul disarmo e tiene Gaza sotto ricatto: che fine ha fatto la promessa di Trump? Altro che “reazione infernale”
I terroristi hanno perso i contatti con i sequestratori di Edan Alexander

Due elementi contribuiscono a schiarire il panorama sconvolto della crisi mediorientale, innanzitutto con riferimento alla guerra di Gaza ma poi, più largamente, in relazione ai rapporti tra le forze più o meno direttamente implicate nel conflitto.
Il primo elemento di chiarezza è stato fornito da Hamas, vale a dire dall’organizzazione che esercita sulla Striscia di Gaza un persistente ed esclusivo potere “de facto”, i cui responsabili hanno comunicato di essere indisponibili a qualsiasi soluzione che implichi il proprio disarmo. Nulla di inaspettato, perché Hamas non aveva mai dato neppure un indizio di disponibilità in quel senso, ma è ora definitivamente chiaro per chiunque quanto fosse illusorio prospettare un futuro di Gaza “nonostante” Hamas, e quanto sia invece urgente la necessità di immaginarlo – e soprattutto renderlo possibile – “contro” Hamas. È una chiarezza che non semplifica la situazione, anzi, ma proficuamente sbatte in faccia a chi voglia risolverla l’esigenza di non eludere, come si è fatto per mesi e mesi, il punto irriducibile: e cioè che l’ostacolo frapposto alla fine del conflitto e a una prospettiva di ricostruzione di Gaza risiede nella pretesa di Hamas di continuare a esercitarvi il proprio potere.
Il secondo elemento tutt’altro che rasserenante, ma a sua volta chiarificatore, è stato offerto dall’amministrazione Trump. Dopo aver aggressivamente avocato a sé stessa la gestione della crisi, promettendo l’inferno a chiunque si fosse messo di mezzo, non ha portato a casa altro che qualche frase smozzicata dai presunti alleati arabi, mentre alla prima resa dei conti con l’Iran ha in buona sostanza rinunciato agli annunci di contrasto a tutti i costi del programma nucleare del regime iraniano, con una specie di moratoria che ne consente uno sviluppo “moderato”. Si tratta, per Israele ma non solo, del profilo più preoccupante della questione, perché certi eccessi fanfaroni della boria trumpiana sono in qualche modo perdonabili quando prefigurano soluzioni rozze ma produttive, non quando tradiscono inconcludenza e incapacità strategiche. E alla prova dei fatti, almeno per ora, si tratta proprio di questo, cioè di uno stillicidio di dichiarazioni a petto in fuori che mostrano di sparigliare e in realtà mantengono inalterata la distribuzione delle carte.
Il profilo di un amico inaffidabile, per Israele, è quello che sempre più precisamente calza sulle fattezze dell’amministrazione statunitense, che assicura certamente un sostegno necessario contro chi destabilizza quel quadrante ma lo fa pretendendo di maneggiare una matassa il cui bandolo continua a sfuggire. Appartiene a queste vaghezze, esemplarmente, l’atteggiamento dell’amministrazione Trump a proposito degli ostaggi connazionali, che avrebbero dovuto essere rilasciati – pena lo scatenamento dell’inferno – ancora mesi fa, mentre è di ieri la notizia che Hamas avrebbe “perso le tracce” di Edan Alexander, l’ostaggio israeliano-statunitense di cui era stato diffuso un video nei giorni scorsi. L’impressione che l’apparente risolutezza di Donald Trump assomigli sempre più a un autistico compiacimento ombelicale, mentre i nemici si prendono gioco di lui, è sempre più forte.
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