Alla politica tutto interessa tranne che i giovani.
I giovani vanno all’estero e la forza lavoro precipita: in 20 anni via i residenti di una città come Milano
Il dibattito politico si concentra sui prossimi quesiti referendari. Intanto crescono gli espatriati italiani e si abbassano i lavoratori

Milano non c’è più. In meno di vent’anni i suoi abitanti, circa 1,4 milioni di persone, l’hanno abbandonata. Ci sono solo palazzi vuoti. Strade deserte. Un silenzio assordante. Se fossimo in un film distopico potremmo rappresentare così la tendenza demografica che tra il 2002 e il 2021 (dati Istat) ha contrassegnato l’Italia: 1,4 milioni di italiani si sono trasferiti all’estero. I residenti di una città come Milano.
Nella media annuale, oltre 71mila italiani scelgono di andare ad abitare, stabilmente, fuori dai confini nazionali. Ogni anno perdiamo una città intera, come Pavia o Caserta, Cremona o Lamezia Terme. L’andamento degli espatri ha avuto un andamento crescente, in particolar modo tra il 2011 e il 2020, con un picco di 122mila persone che hanno lasciato l’Italia nel 2019: l’anno prima del Covid ci siamo giocati Bergamo o Salerno. Mentre il nostro Paese perde residenti, cresce la comunità italiana fuori dai confini nazionali. Al 1° gennaio 2023, i connazionali iscritti all’Aire (l’anagrafe degli italiani residenti all’estero) erano poco meno di sei milioni. Un po’ più del 10% dei 58,8 milioni di italiani attualmente residenti in Italia. In testa alle preferenze – come destinazione – c’è ancora la Gran Bretagna, poi la Germania. Il 5% va negli Stati Uniti.
Al contrario di quanto avviene in Italia, la nostra comunità all’estero è sempre più giovane. Nella popolazione che lascia il Belpaese – gli “expat” – crescono le classi di età di ragazzi, giovani adulti e adulti maturi: il 23,2% (oltre 1,3 milioni) ha tra i 35 e i 49 anni; il 21,7% (più di 1,2 milioni) ha tra i 18 e i 34 anni. Non è la crisi demografica. Quella è un problema aggiuntivo, e grave. Figlio della crisi demografica è l’altro dato che in questi giorni è stato segnalato da uno studio della Cgia di Mestre: entro il 2035 la popolazione italiana in età lavorativa (15-64 anni) calerà di quasi 3 milioni di unità, passando dagli attuali 37,3 milioni a 34,4 milioni: 2,9 milioni in meno, per l’esattezza. In questo caso perderemmo l’intera città di Roma (che conta 2,7 milioni di residenti) più Padova o Messina. È una riduzione pari al 7,8% dell’attuale forza lavoro, che mette a serio rischio la stabilità del mercato del lavoro e, indirettamente, di tutto il sistema di welfare del Paese: dalle pensioni all’assistenza sanitaria.
Ma il dibattito politico è guidato dal confronto tra chi è più o meno “trumpista”, menando vanto sia per la scelta “pro”, sia per quella “contro”. A seconda dello schieramento di riferimento. Siamo assorbiti dalla questione non banale del riarmo (ma chi andrebbe poi in guerra, se perdiamo sempre più cittadini e residenti?). Oppure, come in questi giorni di vigilia referendaria – ammesso che qualcuno se lo ricordi – il problema del Paese sembra il “jobs act” o la resurrezione dell’articolo 18. Un dettaglio: ma ci saranno ancora lavoratori in grado di goderne o di non avere le tutele dell’una o dell’altra normativa? Una cecità che coinvolge partiti politici e sindacati. Entrambi e a diverso titolo dovrebbero essere interessati alla “difesa dei lavoratori”, non alla loro estinzione. Entrambi, con diversa energia, dovrebbero preoccuparsi delle giovani generazioni. Pare di no.
Al sindacato bastano le quote d’iscrizione dei pensionati, ormai di gran lunga la categoria più numerosa per tutte le organizzazioni. Oggi le tutele – come dimostra il dibattito sul salario minimo “per legge” – non sembrano più affidate alla contrattazione, bensì a una scelta politica. Ai partiti tutto interessa tranne che i giovani. Come dimostrato dai numeri c’è un progressivo deflusso delle risorse giovanili verso l’estero. E quelli che restano non votano. Perché occuparsene?
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