Cento anni dalla nascita
Il coraggio di Giorgio Napolitano, il riformista che guidò la svolta europeista del Pci

La vicenda politica di Giorgio Napolitano andrebbe studiata come la manifestazione nella storia del Pci di una possibilità non realizzata, di un potenziale corso diverso della politica comunista. Questo emergerà negli anni successivi alla fine della solidarietà nazionale. Dopo trent’anni di opposizione, il Pci veniva chiamato a pronunciarsi su decisioni di governo da sostenere in Parlamento. Decisioni difficili, spesso impopolari, considerata la crisi in cui versava l’Italia. Da quella esperienza emergeranno elementi che diventeranno essenziali nel pensiero politico di Napolitano. La vexata quaestio delle compatibilità che una politica riformatrice non può eludere, la convinzione che una strategia riformatrice non possa che essere collocata nell’orizzonte europeo.
La solidarietà nazionale fu per Giorgio un’esperienza ricca di stimoli che lo porteranno a riconoscere “i limiti culturali e politici della sua formazione nel Pci”. Tornerà a leggere Keynes, rendendosi conto della totale sottovalutazione nel Pci del pensiero del grande economista. Tornerà a leggerlo alla ricerca di idee per “combinare efficienza economica, giustizia sociale, libertà individuale”. Avvertirà l’esigenza di conoscere le nuove versioni del liberalismo prodotte negli ultimi decenni del 900 dalla cultura europea e americana, posizioni di pensiero a cui il socialismo democratico avrebbe potuto riferirsi per rinnovare la propria fisionomia ideale e programmatica.
C’è infine il punto politico. Napolitano è persuaso che la solidarietà nazionale e il voto alle Camere del 1977, in cui si riconfermano i cardini della politica estera italiana, abbiano prodotto l’indebolimento della “conventio ad excludendum”, la formula che ha tenuto per trent’anni il Pci fuori dal campo governativo. La conseguenza politica è enorme. Il mancato accesso all’area di governo non avrà più la sua causa prima nella discriminazione anticomunista, ma dipenderà dal fatto che è incompiuta la maturazione di un’identità politica che legittimi la candidatura del Pci come forza dirigente del Paese. È aperto per il Pci, questo il pensiero di Giorgio Napolitano, il problema di affermarsi come una forza a pieno titolo dentro la storia e la cultura della sinistra socialista e socialdemocratica europea. Su questo si aprirà la contesa nel partito, il contrasto tra Enrico Berlinguer e Giorgio Napolitano diverrà insanabile. Sarà una battaglia politica difficile, anche aspra. Nel partito, aveva osservato Pietro Ingrao, c’era un singolare miscuglio di solidarietà e durezza. La durezza non mancò nella lotta politica contro le posizioni politiche di Napolitano. Non mancarono nemmeno le meschinità.
Nel segretario del Pci permarrà, anche dopo la famosa frase sull’esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre, un giudizio stroncatorio sulla soluzione socialdemocratica. La strategia di Berlinguer diventerà la ricerca di una terza via tra il socialismo reale e la socialdemocrazia, una via che, scrisse Norberto Bobbio, nessuno sapeva dove si trovasse. La verità è che dietro il carisma di Enrico Berlinguer resterà il vuoto di prospettive politiche, di risorse strategiche. Nel suo tentativo, vano, di ricerca di una terza via, si incardinano il prestigio e la tragicità di Berlinguer, ultimo grande testimone del tramonto di un mondo.
Giorgio cerca un’altra strada. È da tempo consapevole che la storia della sinistra italiana è stata dominata dalla scelta di separarsi dalla socialdemocrazia e dall’impossibilità del Pci di un distacco radicale da quella scelta. È convinto che la strada da seguire sia avviare un processo che ricollochi le forze che si sono riconosciuta nel Pci nel campo del socialismo democratico. È la stessa questione che si porrà alla fine del 1989 quando, malgrado tutto renda evidente che la strada per la quale Giorgio si è battuto sia ormai obbligata dalle vicende storiche, anche allora le sue posizioni saranno in minoranza. Ci sarà addirittura chi sosterrà che la svolta che Occhetto coraggiosamente ha promosso possa subire condizionamenti di “destra” dall’intesa con Napolitano e i riformisti! La famigerata “deriva di destra”.
Accompagnerà la battaglia politica di Napolitano la convinzione che tutto ciò che c’era stato di vitale nella vicenda del Pci apparteneva alla storia del riformismo. Certo, molto stava dentro un impianto ideologico, ma quell’impianto costituiva uno scenario sullo sfondo, non vanificava il contributo dato dal Pci alla storia d’Italia. Era così? C’è da chiedersi, allora, perché la svolta avverrà solo nel 1989, perché si resterà inchiodati fino agli anni Ottanta al 1917, la data periodizzante della storia del mondo, per il Pci? Interrogativi che non abbandoneranno mai Giorgio.
Il suo pensiero si collocava all’interno di una cultura che aveva radici lontane, Amendola, Togliatti. In un’idea di partito come grande forza nazionale, scuola di classi dirigenti competenti e incorruttibili, promotore di un vasto blocco di forze sociali, si conquistava l’egemonia in quanto si rappresentavano gli interessi generali del Paese. L’eco di questa nobile tradizione politica l’avvertimmo nei momenti più alti dei suoi anni al Quirinale. Era una forte tradizione politica che rifletteva tuttavia le condizioni di una fase storica determinata. La forza politica di Giorgio Napolitano sta nell’aver avvertito i limiti di questa tradizione e nell’essersi adoperato per cercare faticosamente una strada che evitasse la dispersione delle forze che si erano riconosciute nel Pci, una strada che le conducesse all’incontro in Europa con il socialismo delle libertà.
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