Il cittadino appare sfiduciato e intuisce l’ostilità del sistema giudiziario nel suo complesso: il diritto è percepito come strumento di alterazione di tutto un contesto storico, al punto di negare se stesso e diventare strumento di legittimazione di menzogne istituzionali. A questo sconfortante risultato concorrono: la legislazione malamente concepita e coordinata che riduce il diritto a un discorso verboso, a disposizione di interpreti che cercano di forzarlo a vantaggio di interessi di parte; l’inefficienza del processo penale, conseguenza dell’«obbligatorietà» puramente nominale, ma pervertita di fatto in assoluta «arbitrarietà», dell’azione penale e delle complicazioni processuali, che produce impunità diffusa, frustrante per il cittadino onesto e osservante, ma anche «errori giudiziari», intesi come tali sia i deragliamenti della giurisdizione penale, costituiti dal fatto che il tribunale imputa una fattispecie che non si è affatto realizzata o la imputa a persona diversa da quella che l’ha posta in essere, sia l’inesatta qualificazione giuridica del fatto o in una non corretta applicazione delle norme di procedura; la formazione professionale difettosa, affidata a università che restituiscono alla società dei tecnici, ma non dei giuristi in grado di percepire i contesti socio-politici da cui le regole scaturiscono e a cui sono destinate; la magistratura costituzionalmente disegnata più come centro di potere che come potere di servizio, con un tasso di entratura in organi di garanzia eccessivo e sproporzionato; l’avvocatura a cui la Costituzione ha assegnato la funzione della difesa processuale, gravata, e quindi per questo delegittimata, dal «sospetto» di agire per sviare la retta applicazione della legge.

Ai fini dell’indispensabile e, al tempo stesso, indifferibile recupero di credibilità del diritto, perché non venga più percepito soltanto come strumento per giochi di potere e torni a essere, piuttosto, una scommessa sul futuro che tutti prendano sul serio, c’è bisogno, innanzi tutto, di operatori più dotti e più eticamente attrezzati, meno tecnici e meno formalisti; di una robusta opera di riacculturamento, insomma, che si generi a partire dalle facoltà giuridiche. Personalmente, mi intrigherebbe il ritorno alle magnifiche orazioni dei grandi avvocati dell’antichità, ma non vedo all’orizzonte novelli Cicerone, capaci di dipingere, come ad esempio nella difesa di Cluenzio, l’atmosfera torbida e corrotta delle classi ricche di una cittadina molisana al tempo della dominazione di Silla, capaci di narrare una serie di delitti, omicidi, avvelenamenti, procurati aborti, testamenti falsificati, facendo emergere a tinte fosche l’avidità rapace, e criminale, l’ossessione per il patrimonio, la tetra superstizione di personaggi in una esistenza provinciale; vedo piuttosto tanti epigoni di Euricio, accusatore falsario, negligente e svogliato, il quale mentre teneva l’arringa ogni tanto si interrompeva, per bisbigliare nell’orecchio di uno schiavo, per dettargli la lista del pranzo, di fronte a costoro, rifugiarsi nell’orgoglio della più classica oratoria forense è come andare all’assalto di un carro armato con una spada di legno.

Devo, dunque, prendere, e dare altresì, atto che per più di millecinquecento anni, in tutta Europa, ci si è affidati ai giuristi per la determinazione delle regole giuridiche del presente e del futuro, ma oggi non ne esistono più le condizioni: prudentes, iuris consulti, iuris periti, iuristae, padroneggiavano saperi oltre il diritto, come filosofia, retorica, storia, letteratura, di cui essi si avvalevano nella creazione delle forme giuridiche mediante le quali ordinavano, dopo averla conosciuta e analizzata, la complessità del sociale; con le codificazioni della modernità e la riduzione del diritto a legge, però, la figura del giurista «intellettuale» è progressivamente entrata in crisi e dentro l’universo giuridico è cominciato un processo di rarefazione culturale. Gli effetti di questo impoverimento epocale sono oggi evidentissimi nelle facoltà giuridiche e, giù per li rami, negli uffici di procura, negli studi legali, nelle aule dei tribunali, nelle camere di consiglio.

In queste condizioni, si fa fatica a conoscere quelle relazioni intersoggettive alla base di ogni sistema giuridico o, forse, non le si vuole neppure conoscere, sicché ci si ritrova nelle leggi dell’ultim’ora, casuali, raffazzonate, vuote di vita. Perso ogni significato sequenze metodiche del tipo esperienza, intuizione, sapienza, giustizia, la dura realtà è che sono spariti o vanno almeno sparendo i tradizionali iuristae: per dirla con il cardinale Giambattista De Luca (Il Dottor Volgare [proemio 7.10]), l’universo giuridico è ormai popolato da «puri testuali», i quali credono che esiste un’identità assoluta fra legge e diritto e che nella legge si trovi quel tutto che si dovrebbe conoscere e coltivare. Sol che abbia un po’ d’esperienza e qualche raccolta di sentenze sulla scrivania, un operatore mediamente diligente, non dovendo più scavare nei fatti sociali e individuarne la misura più corretta, riesce oggi a cavarsela nella maggior parte dei casi: leggi e codici ben redatti ne semplificano il lavoro e riducono la competenza richiesta nella ricerca della soluzione.

Se Benedetto Croce, citato da Piergiorgio Odifreddi (“La bellezza matematica nascosta nel mondo”, La Repubblica, 28 marzo 2014) poteva sostenere che, nella società, «comanda chi ha studiato greco e latino e lavora chi conosce le materie utili» e, addirittura, degradare la scienza a semplice suppellettile, sorta di libro di ricette di cucina: priva di valore conoscitivo, oggi, per quanto attiene al diritto, simili proposizioni non hanno più cittadinanza: per un verso, vi sono filosofi e letterati, come ad esempio Claudio Giunta (“Ripensare l’umanesimo”, in Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2011), per il quale l’Italia è un «paese di avvocaticchi con le loro plaquettes di poesie pubblicate in proprio», che hanno espunto la giurisprudenza dal novero delle scienze umane; per altro verso, non manca chi sostiene, è il caso di Umberto Vincenti (Diritto e menzogna, Donzelli Editore, Roma 2013), che la iurisprentia abbia addirittura perso la qualità di scientia iuris, degradata com’è a pura tecnica: «Tecnica giuridica e non più giurisprudenza, ma anche tecnici del diritto e non più giuristi; tecno-diritto e non più (assolutamente) diritto».

Del resto, l’esperto legale dei nostri giorni, operando solo attraverso le parole della legge vigente, è appiattito sul presente: passato e futuro non gli interessano, fuoriuscendo dalla trama entro cui lavora; né è interessato a capire cosa ci sia dietro le regole scritte, la ragione storica di una singola disciplina o le idee che hanno determinato una certa opzione di regime; è altresì alieno alla critica all’assetto in vigore: poiché è il presente, non già i futuribili o il riformato, a garantirgli competenza e qualità di esperto, è di solito ostile ai cambiamenti. Complice di questo disastro lo sciagurato rinnovamento della scuola italiana, affidato a sbrigative potature come quelle abbattutesi sulle scienze umanistiche che taluni demodementi vorrebbero completare con l’ostracismo della filosofia dall’insegnamento universitario, punto di approdo del maldestro tentativo di impedire il formarsi dello spirito critico su cui si fonda, in una vera democrazia, la possibilità di esercitare forme di controllo tese a evitare che il potere si trasformi in arbitrio e che si nasconda nell’opacità.

Assunto, infatti, a unico bene da salvaguardare la velocità dei processi decisionali, l’esercizio dello spirito critico, implicante discussione, finisce inesorabilmente per rallentarli. Di qui, la riduzione degli spazi dove lo spirito critico può essere accettato, o benevolmente tollerato: spazi privati, ovviamente, dove rifugiarsi per praticare un irrilevante otium, che non inneschi alcuna forma di contagio. Immanuel Kant, nel saggio Il conflitto delle Facoltà (in Scritti di filosofia della religione, Mursia, Miano 1989, p. 244) aveva indicato come compito della facoltà di Filosofia, quello che forse ancor più è il compito delle facoltà giuridiche: sviluppare e affinare «la capacità di giudicare con autonomia, vale a dire liberamente (…) poiché l’unica cosa importante è la verità»: innegabile che competa alla facoltà di Giurisprudenza tramettere i fondamenti del pensiero critico, l’attitudine alla problematizzazione, il sentimento e la consapevolezza della relatività di ogni ordinamento giuridico; devastante, dunque da combattere con ogni mezzo e in ogni sede, il tentativo di trasformare le università in scuole professionali o, peggio, di professioni legali, quali magistratura, notariato e avvocatura. È necessario, allora, pretendere che le facoltà giuridiche tornino a formare autentici giuristi, uomini di cultura raffinata, in possesso di una tecnica peculiare, ma in grado di leggere la realtà sub specie iuris, ispirata dal dubbio metodico.

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Giusfilosofo e magistrato in pensione