Non posso nascondere di nutrire delle remore a condividere le riflessioni alle quali mi ha indotto la rilettura, a quasi quindici anni dalla sua pubblicazione, dell’interessante saggio di Clarine Doganis, Aux origine de la corruption (edito da Presses Universitaires de France, Paris. 2007). I numeri impietosi delle statistiche, anche le più recenti, certificano il disastro culturale dell’Italia e, oltre tutto, gli italiani hanno un’idea assai distorta della realtà: nessuno si scandalizza più per le troppe esilaranti affermazioni «storico-scientifiche-sanitarie» dei detentori del potere; al contrario, la denuncia dell’ignoranza e dell’incompetenza di chi ci governa è considerata orgoglio da establishment, reazione aristocratica di una classe dirigente moralmente corrotta, che complotta contro «il governo del cambiamento».

Chiunque abbia il consenso della maggioranza degli elettori, o riesca comunque a manipolare l’opinione pubblica è libero, insomma, di dire e di fare qualsiasi cosa gli venga in mente: la verità non è più adaequatio rei et intellectus, ma adaequatio rei et consensus. Il che è la base epistemologica del totalitarismo. In breve, viviamo in tempi in cui il più banale, il più fiacco e risaputo dei disegni è cambiare gli uomini a ceffoni, riformare il mondo a bastonate; in cui del normale endemico pregiudizio si fa una dottrina, sublimando il carbone del mugugno e dell’intolleranza stracciona; in cui il «popolaccio» si eccita ad ascoltare discorsi da osteria elevati ad altezze sataniche, ballando in essi il demone della volgarità, della mezza cultura, del rancore nei confronti di tutti quei fantasmi che, nelle bettole di tutto il mondo, hanno sempre incarnato la diversità e lo spavento culturale, tanto più minacciosi quanto più indecifrabili: «Potessi sbatterei tutti al muro!» biascica il filosofo da birreria, picchiando il pugno sul tavolo, con la bocca impastata e l’occhio a palla; e «Popolo» è la parola magica, l’«Apriti Sesamo» del demagogo, la chiave di volta dei discorsi da osteria.
Da medio intellettuale educato in ottime scuole, abituato, dunque, a piatti metafisici ben più ricchi e raffinati, mi rifiuto di accettare la brutalità eretta a sistema di giudizio, l’odore rancido della banalità fatto supremo criterio del gusto, la mediocrità elevata a «Spirito Assoluto».

Rompo, pertanto, ogni indugio, ponendo un’imprescindibile premessa: il tema affrontato nel libro della Doganis, la corruzione, sollecita senz’altro, la curiosità del lettore, facendo subito pensare a coeve «affaires» sia in Francia sia in altre democrazie occidentali, non ultima l’Italia; inoltrandosi nella lettura, però, ci si accorge che l’oggetto del saggio non ha nulla a che vedere con un «mondo degli affari» inesistente nell’Atene classica, ma è la conseguenza, piuttosto, di una peculiare caratteristica del sistema giudiziario ateniese: il posto accordato in esso alla pratica dell’accusa pubblica volontaria, la «sicofantia». Il che induce a convenire con Leonardo Sciascia, per il quale «Il problema della giustizia è sempre esistito; e chi c’è andato dietro ne ha scoperto le assurdità, le corruzioni, insomma tutto quello che noi sappiamo (…)». L’età dell’oro dell’impegno civile, della partecipazione alla vita pubblica, dei dibattiti costruttivi che consentono a ognuno di prendere la parola, come s’immagina accadesse nell’Atene dell’epoca classica, avverte Carine Doganis, è riferimento familiare a politologi, filosofi, storici o giuristi, all’interno di una tradizione preoccupata di accertare le origini delle moderne democrazie, che guardano quel «modello» da un punto di stazione quasi esclusivamente positivo, spesso trascurando schiavitù, esclusione delle donne e degli stranieri, imperialismo a spese degli altri greci. Non v’è dubbio, tuttavia, che anche a causa delle sue derive, delle sue défaillances e delle sue crisi, la democrazia antica, tanto generosamente idealizzata, possa servire comunque da modello per comprendere meglio l’odierna politica.

A partire dalla metà del V secolo a.C., il ruolo centrale dei tribunali popolari e dell’accusa volontaria nel sistema politico ateniese provocò un vivace dibattito sugli abusi legali, i cui riflessi si colgono con chiarezza sulla scena comica: in primo piano è, per l’appunto, la maschera del Sicofante, campione dell’inganno perpetrato ai danni del demos, avido delatore che coglie ogni occasione, grazie alla sua abilità retorica, per accrescere le proprie ricchezze a scapito della polis. Ed è questo l’indicatore d’analisi adottato dal libro della Doganis: a seconda del modo in cui si ricorreva all’accusa pubblica volontaria, l’istituzione poteva funzionare come un pubblico ministero «cittadino» o, al contrario, trasformarsi in delazione. Poiché essa, di volta in volta, era tanto il risultato del ricorso da parte del cittadino a un’istituzione concepita all’origine come eminentemente democratica, quanto il sintomo della corruzione di questa stessa istituzione, la sicofantia pone la questione dell’affidabilità istituzionale. La delazione, peraltro, mette in evidenza la corruzione dell’ideale di una società affidabile, che era quella della città di Atene all’epoca classica, che si ritroverà nell’ideale di trasparenza tipico delle democrazie contemporanee.

Fonte privilegiata alla quale attingere sono le commedie di Aristofane, che mettono assai bene in evidenza le criticità della democrazia ateniese: l’ignoranza dei governanti, la mancanza di scrupoli morali in alcuni di essi, l’interesse dei giudici per il denaro o la libertà di parola concessa ai meteci e agli schiavi. Se Gli Acarnesi e I Cavalieri aggrediscono rispettivamente la politica estera e la politica interna della democrazia ateniese, ma anche l’assemblea e l’esecutivo, è Le Vespe, invece, a mettere sotto accusa l’altro cardine del sistema, il potere giudiziario. Tutto il teatro di Aristofane è, del resto, attraversato dall’attacco a tale sistema, che non si focalizza tanto sulla sua negatività etico-politica, data per scontata, ma si scarica sulla proliferazione dei processi implicante un’esclusività all’interno delle attività pubbliche degli Ateniesi, qualcosa, insomma, di equivalente nella dimensione collettiva alla mania del singolo, che occupa l’interezza del suo spazio emotivo. Così, se ne Gli Acarnesi (v. 375), Diceopoli mette sotto accusa i vecchi Ateniesi che «Non badano a niente altro che a mordere con il voto»; nel quadro panellenico di Pace, il rimprovero di Ermes agli Ateniesi è «non fate altro che processi» (v. 505); ne Le Nuvole, l’illetterato Strepsiade non riconosce Atene sulla carta geografica, perché, spiega, «non vedo i giudici in seduta» (v. 208); Evelpide, ne Gli Uccelli, motiva con l’ossessione giudiziaria il disgusto ormai irreversibilmente maturato nei confronti di Atene: «le cicale cantano sui rami un mese o due; gli Ateniesi cantano nei tribunali per tutta la vita» (vv. 39-41).

Il testo de Le Vespe indaga con sottigliezza e in profondità la relazione tra politici e giudici, leggendola non nei termini anodini dell’alleanza, ma in quelli di strumentalizzazione: «Vogliono che tu sia povero, e ti dirò il motivo: così ti abitui a riconoscere il padrone, e quando fischia per aizzarti contro un suo nemico, tu gli salti addosso furiosamente» (vv. 703-705). Evidente come ci si trovi nel bel mezzo della polemica politica, il cui presupposto è che la giustizia viene gestita, cioè mistificata, non secondo principi etici, ma secondo l’interesse della parte politica dominante. Nella folgorante intuizione che il fine delle malversazioni private risulta essere non solo il personale profitto, ma l’impoverimento delle masse, si saldano il motivo economico e quello politico: l’indigenza dei giudici è l’esito di uno scaltro calcolo dei demagoghi inteso a convertire la loro frustrazione in rabbia da indirizzare nei processi contro i propri avversari politici. Già ne I Cavalieri, del resto, Demo ringiovanito veniva invitato a prendere posizione contro le malversazioni giudiziarie (vv. 1358-1360).

La persistente polemica di Aristofane verso il sistema giudiziario, come accennato, si saldava e insieme si determinava nella demonizzazione ancora più frequente del Sicofante, che, sebbene teoricamente utile alla causa dello Stato, con il suo eccesso di zelo, se non anche con i suoi abusi legali, incarnava un tipo di comportamento decisamente inviso, se non addirittura nocivo, alla società ateniese: «odiare il sicofante», che nell’immaginario della polis costituiva l’ipostasi delle più diffuse e palesi espressioni distorsive dell’amministrazione della giustizia, era, come ricordava Aristotele, un sentimento condiviso da «tutti» (cfr. Retorica, 1382a.6-7). È forse temerario intravvedere in tutto ciò una certa analogia con il presente?

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Giusfilosofo e magistrato in pensione