La polvere sotto il tappeto
L’astuto inquisitore e l’ignoranza delle regole minime…

Tempi bui, giornate tristi, fiori, campane a morto. I notiziari sono bollettini di guerra: la conta delle vittime non ha fine. Per dirla con Bertolt Brecht (Lob der Dialektik, 1932): «Das Unrecht geht heute einher mit sicherem Schritt», l’ingiustizia, insomma, oggi cammina con passo sicuro. Ogni parola è ormai un rumore inutile: meglio sarebbe il silenzio, per chi sia inetto all’entertainment e, vagolando magari dalla filologia romanza ai labirinti medievali, da François Rabelais a Franz Kafka, da Hans Kelsen a Carl Schmitt, arroti una lingua distante dalle dolcezze colloquiali dei tanto affabili poligrafi, se non analfabeti comunque più spesso semianalfabeti, che spopolano nell’odierno panorama (pseudo)culturale.
Parafrasando il professor Francesco Muzioli, caduti tutti gli steccati e tutti i muri nella confusione postmoderna, non ci sono più distinzioni di settore e neppure uno straccio di competenza specifica, ed è possibile transitare liberamente, senza passaporto di sorta, attraverso i confini che un tempo separavano la letteratura dalla logica filosofica o dalla teoria politica economica, essendo ridotto qualunque argomentare in amabile intrattenimento, tipo «conversazione», essendo tutti quanti, siano essi letterati e filosofi, letterati-filosofi, giuristi semianalfabeti o, addirittura, analfabeti tout court, nient’altro che «scrittori», da valutare non secondo metodi e tradizioni proprie, ma vagliati già da sé davanti all’unico giudice insindacabile che è il Mercato.
Vi sono, per fortuna, ancora dei limiti all’indecenza, che impongono ai «competenti», di far sentire la propria voce, per quanto sia loro consentito ed essa possa risultare, più che sgradevole, sgradita, di fronte allo scempio che vien fatto del diritto e del processo, a opera di taluni «menanti» dall’inadeguata professionalità, la cui impreparazione giuridica favorisce una «informazione spettacolo», tendente a presentare i fatti in forma personalistica e sensazionalistica, con grave adulterazione, dunque, del valore di taluni atti o di taluni momenti dell’accertamento giurisdizionale, bisognoso, invece, di un’accorta mediazione tecnica. È, infatti, il professor Glauco Giostra a segnalare che, «una profonda consapevolezza dell’effettivo significato processuale dell’attività giudiziaria permetterebbe al giornalista di affrancarsi dalla sua fonte, nel senso che gli consentirebbe di non esserne il passivo megafono, ma di valutare, apprezzare e correlare ad altre conoscenze in suo possesso le notizie che gli vengono non disinteressatamente fornite».
Il mio pensiero, in proposito, corre, e non è la prima volta, avendovi fatto cenno in una mia precedente riflessione, a quel verbale d’interrogatorio che, secondo il «menante» venutone, solo dio sa come, in possesso, avrebbe condotto a emersione l’«astuzia» dell’inquisitore, impegnato nella partita capitale la cui posta era lo smascheramento di un asseritamente falso aspirante allo status di collaboratore di giustizia. Quel «menante», forse proprio perché gravemente carente di preparazione specialistica o, magari, soltanto per sensazionalistica superficialità, non ha sottoposto alla doverosa critica il discorso dell’«astuto» inquisitore. Se lo avesse fatto, avrebbe colto l’assurdità del negare in radice, oltretutto affatto aprioristicamente, sia l’attendibilità dell’aspirante collaboratore sia la credibilità di quanto da costui narrato, adducendo l’autorità di precedenti «giudicati».
La «logica», absit iniuria verbis, sottesa a questa «astuzia» è la stessa che indusse altro alumbrado a manifestare, in un verbale di coordinamento delle indagini redatto presso la Dna di Palermo il 22 aprile del 2009, «la sua contrarietà alla richiesta di piano provvisorio di protezione (nei confronti di Gaspare Spatuzza, «aiutante boia di Brancaccio», n.d.r.) sia perché essa attribuirebbe alla dichiarazione di Spatuzza una connotazione di attendibilità che ancora non hanno (sic!), sia perché le dichiarazioni di Spatuzza, sebbene non ancora completamente riscontrate, potrebbero rimettere in discussione le ricostruzioni e le responsabilità delle stragi, oramai consacrate in sentenze irrevocabili, sia perché l’attribuzione, allo stato, di una connotazione di attendibilità alle dichiarazioni di Spatuzza potrebbe indurre l’opinione pubblica a ritenere che la ricostruzione dei fatti e le responsabilità di essi, accertate con sentenze irrevocabili, siano state affidate alle dichiarazioni di falsi pentiti protetti dallo Stato, e potrebbe, per tale ultima ragione, gettare discredito sulle Istituzioni dello Stato, sul sistema di protezione dei collaboratori di giustizia e sugli stessi collaboratori di giustizia».
Eppure, sia detto per inciso, proprio grazie alle asseverazioni di Gaspare Spatuzza fu possibile acclarare come le indagini dei pubblici ministeri che, coordinati dal procuratore capo di Caltanissetta, nei primi anni Novanta del secolo scorso, seguivano le indagini del gruppo investigativo «Falcone/Borsellino» guidato da Arnaldo La Barbera, fossero inquinate dalle false dichiarazioni, fra gli altri, del «superpentito» Vincenzo Scarantino, indottrinato per allontanare la verità sulla strage di via D’Amelio. Il medesimo «menante», a dimostrazione dell’«astuzia» dell’inquisitore, ne riporta la seguente proposizione rivolta all’aspirante collaboratore: «Noi oggi le abbiamo fatto domande su omicidi dove abbiamo la prova di come sono andati i fatti, non i gravi indizi di colpevolezza, la prova, per questo sono salito qua oggi».
Mossa sommamente incauta, in quanto evidenzia i limiti tecnico-giuridici dell’astuto inquisitore: non è paradosso l’idea che ci troviamo difronte a un problema d’igiene linguistica, circolando troppe parole equivocamente adoperabili. Secondo i grandi maestri della retorica, da Aristotele a Ermagora di Temmo, a Cicerone, a Quintiliano, tra gli strumenti per la formazione del giudizio di fatto la distinzione fondamentale era quella tra le «probationes inartificiales», che si presentavano al giudice così com’erano, senza alcuna elaborazione da parte del retore, quali le testimonianze e i documenti, e le «probationes artificiales», costruite o «inventate» dal retore, secondo lo schema argomentativo identificabile con quello della prova presuntiva o indiziaria di cui parlano gli articoli 2727 e 2729 del codice civile, nonché l’articolo 192 comma 2 del codice di procedura penale.
Quando il fatto «principale», oggetto della controversia o dell’accusa non può essere provato «direttamente», con inspectio ocularis, testimonianze, confessioni o altro, si individuano come oggetto fatti diversi, «secondari», cioè indizi, dai quali, in concorso tra loro, possa inferirsi il fatto principale, in applicazione di una «regola d’esperienza», che può avere natura logica o scientifica, ma corrispondente, più spesso, semplicemente a un criterio di normalità, secondo l’id quod plerumque accidit. Se sia più efficace, in sede di valutazione da parte del giudice, la prova «diretta» o la prova «indiziaria», è problema diversamente risolto a seconda della più moderna concezione «dimostrativa» della prova o di quella «persuasiva» dei retori classici: nel primo caso, la prova indiziaria vale di regola meno di quella diretta; nel secondo caso, era vero il contrario: «Apud bonum iudicem argumenta plus quam testes valent», diceva Cicerone (De republica, I. 38).
Per giustificare questa affermazione apparentemente paradossale, senza affrontare qui il tema fin troppo impegnativo delle due diverse concezioni di «verità» sottese alla contrapposizione di opinioni sulla prevalenza della prova «diretta» o della prova «indiziaria», basti evidenziare che l’argumentum è un prodotto finito elaborato e perfezionato dall’arte del retore e da lui tradotto in un linguaggio conosciuto dal giudice; là dove, invece, la prova «diretta», ivi compresa la stessa «inspectio ocularis», è un materiale grezzo, o tutt’al più un semilavorato, che si presenta al giudice con tutte le sue asperità e tutti i suoi difetti, potendo il narrante mentire, ricordare male, esprimersi confusamente; il documento essere di difficile lettura o interpretazione; il giudice fraintendere ciò che vede con i suoi occhi; e, quindi, essere, in definitiva, più ingannevole. Come, allora, ognun vede, la mossa astuta riposa su un’analisi a dir poco corriva, eccessivamente approssimativa, sbagliata del fenomeno probatorio.
Da altra proposizione dell’astuto inquisitore («Non siamo qui per parlare di cose nuove o inedite, noi stiamo parlando di cose acquisite nel corso dell’istruttoria dibattimentale e siamo pronti a chiedere la condanna, ci sono persone che hanno spiegato per filo e per segno come stanno le cose»), emerge, peraltro, che quella che costui sbandiera è una prova narrativa, che cola da «persone che hanno spiegato per filo e per segno come stanno le cose», in contrasto con altra prova narrativa, che cola dall’aspirante collaboratore di giustizia. In simile contesto, dove si contrappongono due prove «dirette», parlare a vanvera di «prova» e di «gravi indizi», evocando la formula dell’articolo 273 comma 1 del codice di procedura penale, segnala l’ignoranza delle minime regole semantiche e logico-giuridiche di chi si crede fin troppo furbo.
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