Non sono i nostri tempi molto diversi, salvo che per l’obiettiva penuria di «geni», da quelli in cui monsieur Vautrin, con la sua parrucca nera e i favoriti tinti, istruiva il giovane Eugène de Rastignac, intenzionato a entrare nel bel mondo: «Lo sa come ci si fa strada qui? Brillando per genio o per capacità di corruzione. Bisogna penetrare in questa massa di uomini come una palla da cannone o insinuarvisi come la peste. L’onestà non serve a niente. Ci si piega al potere del genio, lo si odia, si cerca di calunniarlo perché prende senza condividere; ma ci si piega se persiste. In poche parole, lo si adora quando non si è potuto seppellirlo nel fango. La corruzione domina, il talento è raro. La corruzione è quindi l’arma della mediocrità che abbonda, e ovunque ne sentirà la punta acuminata» (Honoré de Balzac, Papa Goriot, 1834).

Non c’è niente di misterioso nella vicenda dei successi e degli insuccessi; le istituzioni configurano un modello umano: chi gli assomiglia di più parte favorito. Spesso il personaggio archetipico appartiene a un genere inferiore: si mette ad esempio la dignità sotto i piedi, intriga come un ossesso, non sa coniugare i verbi, ha i principi morali di un alligatore, cova voglie smodate e, privo com’è di inibizioni, vanta chances maggiori. Se una cosa gli piace se la prende: perché lasciarla agli altri? Personaggi di tal fatta, quando celebrano i loro riti di amicizia, si baciano stando uno addosso all’altro come conigli infreddoliti, ma le occhiate balenano torve. Aggressivi, spietati, incapaci di reprimersi, paurosi, escono allo scoperto solo quando credono d’avere partita vinta ed essendo più furbi che perspicaci, talvolta sbagliano, ma quando capita rimediano a precipizio senza troppe difficoltà: poiché l’avversario appartiene allo stesso tipo non occorre neppure una riconciliazione formale. Uno dei vantaggi del vuoto morale è l’incapacità di vergognarsi: l’adoratore del potere sta agli antipodi della kalokagathia greca sebbene l’insensibilità alla vergogna non escluda, anzi implichi una vanità forsennata: questa specie d’uomo dà e rimangia la parola, fa in pubblico figure da cane e ricomincia dopo un attimo gonfiandosi di livore in attesa dell’occasione di sfogarlo.

Accade, ahimè, di dover constatare che nei palazzi di giustizia alloggiano, comodamente incistati da grassi parassiti, esemplari di tal specie in toga e tocco, usi ostentare spudoratamente la frequentazione di giornalisti soi disants che profumano di ricatto, di ufficiali e funzionari felloni, di spioni salvati dal segreto di stato; inventare complotti, screditare o minacciare colleghi, scippare dossier ad altre autorità giudiziarie, simulare indagini su fatti asseritamente delicati e gravi, per poi archiviarle alla chetichella, dopo anni di reiterate abnormità, costosissime per l’erario; origliare abusivamente le conversazioni degli inquisiti coi difensori; svendere la funzione giudiziale, in cambio di soldi e altri vantaggi, personali e familiari. Tanto fantasiose quanto sconcertanti le tecniche messe in campo per soddisfare i propri biechi interessi, dalla creazione di fascicoli «specchio», che si autoassegnano al solo scopo di monitorare ulteriori fascicoli di indagine assegnati ad altri colleghi, a quella dei fascicoli «minaccia», in cui finiscono per essere iscritti soggetti «ostili» alle losche mire della consorteria; e infine col metodo dei fascicoli «sponda», tenuti in vita per creare una legittimazione formale al conferimento di tanto costose quanto inutili consulenze, il cui reale scopo è quello di servire gli interessi dei soliti sodali o ingrassare le solite, poche, società esercenti in regime quasi monopolistico, attività intrusive nell’altrui vita privata, che nulla hanno da invidiare alle operazioni della Stasi nella Berlino Est teatro del film Das Leben der Anderen di Florian Henckel von Donnersmarck.

Il doloroso affresco è, peraltro, assai più composito: le cronache criminali fanno trapelare, ad esempio, anche l’esistenza di veri e propri «sistemi» tesi a permettere a magistrati «amici» una serie di «affari» immobiliari, mediante vizi macroscopici nelle procedure di vendita e gravi falsità nelle perizie. Come se non bastassero il mercimonio della funzione giudiziaria o, addirittura, il sospetto di pedofilia che attinse, alcuni anni orsono, giudici, alti funzionari e dirigenti che potessero aver fatto uso di un’utenza telefonica intestata al Consiglio di Stato, per contattare prostitute minorenni, capita anche d’imbattersi nella brutta storia di pubblici ministeri e poliziotti di vaglio «antimafia», i quali avrebbero tentato di lenire il senso di colpa di un fantoccio perfetto ignorante, emarginato e ricattabile, perciò pronto all’uso per qualsiasi crimine da insabbiare, mistificare o depistare, spiegando al malcapitato che una sua falsa collaborazione fosse da prendere come un lavoro e che coloro che sarebbe stato spinto ad accusare nella fantasiosa ricostruzione di una strage più di altre tristemente famosa erano comunque colpevoli di crimini orrendi.

A fronte di simili nefandezze, il pensiero corre agli Chatz-fourréz (Gatti Felpati), che sarebbero poi stati i magistrati e i giudici, con allusione all’ermellino che adorna le loro toghe, di rabelaisiana memoria (Gargantua et Pantagruel, Libro V, Capitoli 11-15): «Bestie molto orribili e spaventose», soggette al comando del loro «archiduc» Grippeminault, «mangiano i bambini e si cibano su lastre di marmo (…) Il pelo non cresce loro sopra la pelle, non spunta fuori: ce l’hanno dentro, nascosto a guisa di felpa; e portano tutti, come emblema e divisa, una borsa aperta, ma non tutti alla stessa maniera: chi la porta al collo a mo’ di sciarpa, chi sul culo, chi sul buzzo, chi sul costato, e tutto a fin di mistero. Hanno anche artigli, e così forti, lunghi e affilati, che nulla sfugge loro dopo che l’abbiano adunghiato». Fra questi Gatti felpati, per come un «pezzente dabbene» faceva rilevare a Panurgo e compagni, in procinto di entrare nella loro tana, «regna la sesta essenza, mediante la quale tutto arraffano, tutto divorano, tutto scagazzano. Essi impiccano, bruciano, squartano, decapitano, massacrano, imprigionano, minacciano e distruggono tutto senza distinzione di bene e di male. Perché presso di loro il vizio si chiama virtù; la nequizia è soprannominata bontà; il tradimento ha nome fedeltà, il latrocinio è detto liberalità; il saccheggio è la loro divisa e, se compiuto da loro, tutti gli umani lo trovano buono, eccetto gli eretici; e il tutto fanno con sovrana e irrefragabile autorità».

Sempre, il «pezzente dabbene» al quale Panurgo e soci «avevano donato un mezzo testone» raccomandava ancora loro che, «se mai pestilenze, carestie, guerre, terremoti, cicloni, cataclismi, conflagrazioni o altre calamità affliggeranno il mondo», ascrivessero «il tutto all’enorme, indicibile, incredibile e inestimabile malvagità diuturnamente forgiata nell’officina dei gatti felpati», sconosciuta alla gente, dunque soltanto per questo «non deplorata, detestata, repressa come ragione vorrebbe». Per fortuna, i pilastri e i contrafforti della giustizia dell’arciduca Grippeminault non sorgono dovunque e i Gatti felpati, comunque spesso assai potenti, costituiscono un’esigua minoranza della fauna che popola i palazzi di giustizia. Talvolta, però, l’ignavia di colleghi spesso arroccati in sterili se non addirittura sospette difese corporative o catafratti di cautele, per paura magari d’incappare nelle vendette dei potenti e impuniti normofobi, fa, purtroppo, il giuoco di costoro, con grave danno per la credibilità del lavoro dei tantissimi magistrati con la schiena dritta, i quali, con disciplina e onore, improntano il loro agire al più rigoroso rispetto della legge, e per il prestigio della Magistratura nel suo complesso.

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Giusfilosofo e magistrato in pensione