La premier a un bivio: far infuriare i ministri o l'elettorato
Il duello tra Lega e Forza Italia, il pasticcio di Meloni e Salvini e quella manovra che non fa dormire la destra
Il duello è iniziato. A fine luglio è stato plastico, occasione la tassazione degli extra profitti bancari. Il palcoscenico di Cl a Rimini lo ha ufficializzato: da qui al prossimo giugno, data delle elezioni europee, Lega e Forza Italia si contenderanno il secondo posto nella coalizione. Quello alla destra del “padre” Meloni perché in questa anomala e molto laica trinità, il terzo posto, quello dello Spirito santo, non conta. In ogni caso molto poco. Il duello non è dichiarato, anzi è negato. “Andremo avanti cinque anni più altri cinque” promette Salvini disegnando così una prospettiva di governo di lungo periodo. Il problema è come, con quale assetto e con quali rapporti di forza interni. Tutto questo dipende dalle percentuali di voto che Lega e Forza Italia otterranno alle elezioni europee.
Ieri i due vicepremier sono stati protagonisti al Meeting di Comunione e liberazione. Interventi separati, “Le nostre comuni sfide con l’Africa” per il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani, “Infrastrutture e Pnrr:quale sviluppo per l’Italia” per il vicepremier e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini. Ma tra interventi ufficiali e “a margine” il disegno è stato anche ieri molto chiaro. Immigrazione, Africa, Pnrr, infrastrutture e sud, tutti temi su cui Lega e Forza Italia hanno posizioni distanti. Per non dire opposte.
Sull’economia, ad esempio. Il quadro è stato tracciato proprio a Rimini nel primo giorno di meeting dal ministro Giorgetti: cari signori e signore non c’è un euro, dunque richieste e promesse sono rinviate a date da destinarsi. Per essere chiari, solo per fare le cose basiche – tra cui taglio del cuneo che vale 10 miliardi, sanità che ne chiede almeno 4 e missione in Ucraina altri 5 o 6 – servono almeno trenta miliardi. In cassa ne arriveranno forse 8-10. Salvini, soprattutto, se ne faccia una ragione. E anche quell’elettorato di destra che si ritiene tradito dalla “serietà” di Giorgia Meloni e già lavora ad un altro partito no vax, no tax, no Nato etc etc.
Per il leader della Lega “la priorità è aumentare stipendi e pensioni. Mettere quello che riusciremo a ricavare risparmiando sul reddito di cittadinanza per chi non na ha diritto e confermando il prelievo sui guadagni milionari delle banche, in aumento di stipendi e pensioni. Questo vuol dire aiutare le famiglie”. Cavolo, neppure Robin Hood nella foresta di Scherwood. Peccato che l’altro vicepremier e segretario di Forza Italia, la veda in modo diverso. Sappiamo come il 7 agosto, giorno dell’ultimo consiglio dei ministri prima della pausa estiva nonché del blitz contro gli extraprofitti delle banche, Tajani abbia mal sopportato il colpo deciso alle sue spalle, senza cercare una condivisione che difficilmente sarebbe arrivata.
Forza Italia ha promesso emendamenti correttivi. Alla fine la supertassa frutterà un paio di miliardi. Forse. A scanso di equivoci Tajani ieri ha spiegato che “la tassa sugli extra profitti non è materia per prendere voti in campagna elettorale”. In pratica ha detto agli alleati che fanno una pericolosa propaganda populista. “Gli emendamenti che presenteremo – ha insistito – andranno nella direzione di tutelare risparmiatori, piccole e medie imprese e il nostro sistema creditizio”. L’ultimo paletto alzato da Tajani è “guai toccare le banche di prossimità”. Questo dossier deciderà molti voti. E’ forte la sensazione che Meloni e Salvini abbiano combinato un pasticcio, figlio di rabbia e fretta. Ancora non è chiaro il posizionamento di Lega e Forza Italia rispetto all’Europa e alle attese nuove regole del Patto di stabilità. Pare che Bruxelles non abbia intenzione di prorogare la sospensione del Patto anche nel 2024. E’ certo invece che le nuove regole, un po’ più flessibili, non entreranno in vigore prima del 2025. Questo significa che la manovra che il Mef e Giorgetti si accingono a scrivere dovrà tenere conto di ciò che lo stesso governo ha approvato lo scorso 14 luglio: Roma dovrà assicurare nel 2024 un aggiustamento di bilancio in termini strutturali pari allo 0,7%del Pil, circa 13-14 miliardi. Neppure la crescita aiuta: la speranza di andare oltre l’1 per cento è stata riposta con le stime del secondo trimestre. Dunque il patto piange. Per Salvini e tutte le sue promesse è un problema, benzina sul fuoco dell’antieuropeismo. Per Forza Italia in asse con il Ppe, meno. Meloni non ha alternative: o taglia la spesa o fa salire le imposte. La prima fa infuriare tutti i ministri che invece chiedono e ottengono più risorse. La seconda fa infuriare tutto l’elettorato di Meloni.
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