In quella telefonata intercettata dagli inquirenti nel 2010 e poi resa pubblica Nichi Vendola rideva, ma non dei morti. Un uomo, un politico come lui, che ha dedicato la sua vita a battersi dalla parte degli ultimi, non lo avrebbe mai fatto. Mai. L’allora governatore della Puglia e leader di Sinistra ecologia e libertà rideva per come Girolamo Archinà, responsabile per i rapporti istituzionali dell’Ilva di Taranto, aveva strappato il microfono a un giornalista che nel 2009 faceva delle domande al patron dell’Ilva, Emilio Riva. Ben altra cosa.
Eppure un video del Fatto quotidiano on line montava la risata mettendola in relazione ai morti, a chi aveva perso la vita per il tumore. Un montaggio spaventoso, che incitava al linciaggio. E il linciaggio ci fu. Sui giornali e sui social. E da allora per Vendola non è più stato lo stesso. La sua carriera politica distrutta (speriamo solo per il momento…).
Oggi quella telefonata viene raccontata per come veramente avvenne. Il Tribunale civile di Bari, con sei diverse sentenze, ha condannato per diffamazione quattro testate giornalistiche e dieci tra giornalisti e direttori di giornali, tra cui Alessandro Sallusti, Maurizio Belpietro, Peter Gomez e Francesco Storace. I sei procedimenti, distinti ma paralleli, partono dal video del Fatto, «costruito – secondo gli avvocati, Francesco Tanzarella e Marica Bianco – in modo suggestivo… Fu poi montata una violenta campagna mediatica e politica contro Vendola.
Un vero linciaggio poi rilanciato da altri quotidiani». L’ex governatore della Puglia dovrà ricevere complessivamente 145 mila euro di risarcimento, di cui 50 mila dal Fatto. Ben poca cosa se si pensa al danno subito, ma è intanto un passo importante contro un modo di fare giornalismo che ormai va per la maggiore. Si parte dagli inquirenti che intercettano, estrapolano le frasi che possono maggiormente danneggiare l’indagato alla faccia del diritto alla difesa, le danno ai giornali (spesso anche quando coperte da segreto istruttorio) e poi i giornali le pubblicano senza filtri, in nome di un diritto di cronaca che appare sempre più come un diritto al linciaggio.
In questo caso (ma non è forse sempre così?) c’è un tassello in più: le frasi montate ad arte erano palesemente distorte. Ricordo perfettamente quei giorni, le voci di sdegno contro Vendola, gli attacchi, le offese. Eppure bastava fermarsi e ascoltare bene per capire che quel video era un fake, che quella risata non poteva essere giudicata in ogni caso perché estrapolata dal contesto, che le intercettazioni date in pasto al pubblico non sono informazione ma gogna. Sì, non ci voleva molto. E anche non conoscendo Vendola, il suo rispetto dell’essere umano, la sua dedizione alla cosa pubblica, bastava vedere che cosa aveva fatto per la sua Puglia. Bastava… E invece i fucili erano pronti a sparare contro di lui. E non erano fucili caricati a salve, ma spari violenti. Il primo grado che gli dà ragione è un risarcimento morale importante. Non solo per lui. Dovrebbe essere anche un freno per chi pensa di fare giornalismo sulle spalle delle persone, senza limiti, senza scrupoli. Questa sentenza parla di noi. Di quale giornalismo e di quale politica vogliamo.
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