Non v’è dubbio che il discorso alla Camera del presidente del Consiglio abbia avuto i tratti di un discorso programmatico. Decisamente ambizioso (o forse per qualcuno velleitario) e impegnativo. Dai rumors di queste ore, e se nulla dovesse cambiare (ma la cautela è d’obbligo) sembrerebbe che, oggi, al Senato, l’esecutivo potrebbe ottenere solo una maggioranza semplice nel voto di fiducia. Sul piano costituzionale nulla da eccepire. La nostra Carta ammette governi di minoranza. L’unica anomalia politica sarebbe un Conte II che nacque con una maggioranza assoluta e sopravvive con una maggioranza semplice, avendo perso un pezzo e operando un semplice rimpasto dei ministri dimissionari di Italia Viva.

I veri problemi, di carattere politico-costituzionale, sono altri.

Il primo. I governi di minoranza non hanno vita facile. Se il governo è di minoranza, per definizione vi è sempre una maggioranza di oppositori che può palesarsi sulla votazione di qualsiasi provvedimento. Il governo pertanto sarebbe tanto ambizioso, quanto precario, affidato alla benevolenza delle astensioni o all’arrivo, in corso d’opera, di quelli che Conte oggi ha ribattezzato come “i disponibili”. Sostenitori dell’occasione o nuovi partner organici, magari allettati dalla promessa di una legge elettorale proporzionale. Il presidente del Consiglio insomma dovrebbe continuamente guardarsi le spalle, più di quanto non abbia dovuto fare fino a oggi.

Il secondo problema è se a Conte convenga scegliere questa strada. L’alternativa potrebbe essere che, prima o dopo del voto di fiducia al Senato, egli si rechi al Quirinale, forte, quantomeno, della fiducia alla Camera, per ottenere un nuovo incarico di formare il possibile Conte ter. Dal punto di vista politico costituzionale sarebbe anche la soluzione più nitida. Prima dell’affermarsi di prassi alquanto spurie della II repubblica, infatti, era chiaro, almeno nella dottrina maggioritaria, che l’uscita dal governo di una componente politica autonoma imponesse le dimissioni del governo. E, infatti, nella famosa crisi del governo Andreotti del luglio 1990, i ministri della sinistra Dc usciti dal governo (tra cui l’allora ministro dell’Istruzione Sergio Mattarella), votarono poi compattamente la fiducia al governo, dopo che il presidente del Consiglio aveva, in prima battuta, proceduto a un rimpasto. Insomma, ci fu un dissenso politico, ma la maggioranza rimase inalterata e Andreotti non ebbe bisogno di dimettersi. Perché non percorrere questa strada? Probabilmente perché in tempi di incertezza il presidente del Consiglio non ha abbastanza fiducia sul fatto che, una volta dimessosi, la situazione non precipiti facendogli perdere il controllo della situazione. Fin qui i problemi che riguardano, diciamo così, il Palazzo e le forze politiche che lo abitano.

Ma c’è anche un altro profilo, che forse può interessare tutti. La politica, nei prossimi mesi, dovrà gestire la più grande montagna di danaro che l’Italia abbia avuto a disposizione dai tempi del piano Marshall: i 209 miliardi del Recovery Fund, sempre che non si decida di ricorrere anche ai 36 del cosiddetto Mes sanitario. Proprio in queste ore fioccano i dubbi sull’adeguatezza del piano predisposto dall’Italia. Alcuni dei nostri alleati europei sembrano scettici sul fatto che saremo in grado di evitare che tutta questa disponibilità si trasformi in larga parte in spesa improduttiva e in una cuccagna per gli appetiti elettoralistici di chi sarà sulla plancia di comando. Basta leggere la Frankfurter Allgemeine Zeitung o l’intervista di Lars Feld, consigliere economico della Merkel su La Repubblica di qualche giorno fa.

E allora la domanda che verrebbe da porsi non è tanto se si uscirà dalla crisi, ma come si eviterà la più grande tragedia economica del paese. Nel 1978 Giuseppe di Palma, uno studioso italiano approdato a Berkeley, scrisse un volume sulla situazione italiana di allora (un’epoca peraltro in cui il debito pubblico già cominciava a galoppare). Il titolo del libro, molto evocativo, era Sopravvivere senza governare. Qualche anno dopo (il 17 febbraio 1991), con il debito pubblico ormai impazzito, Andreotti pronunciò la famosa frase: “Meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Ecco, forse questo è il vero dilemma su cui dovremmo concentrarci oggi: piuttosto che zigzagare con destrezza tra i meandri della prassi costituzionale, tra una maggioranza assoluta e una maggioranza semplice. Anche perché all’epoca del piano Marshall il presidente del Consiglio si chiamava Alcide de Gasperi, il governo era tutt’altro che traballante e intorno a lui spiccavano, tra gli altri, figure come Luigi Einaudi, Ugo La Malfa, Pasquale Saraceno, Ezio Vanoni e Donato Menichella. E scusate se è poco.