Finiscono qui le elezioni politiche per rinnovare il Parlamento. Urne semi vuote e trionfo di Giorgia Meloni. Ne parliamo con il politologo e docente universitario Gennaro Carillo.

Professore, chiuse le urne analizziamo i dati: la Campania batte anche il record dell’astensione: sul sito del ministero dell’Interno, i votanti si fermano al 53,27% contro il 68,18 per cento del 2018. Mentre a Napoli il crollo è di ben quindici punti: ha votato il 50,78% contro il 65,34% del 2018. La Campania è terz’ultima per votanti, davanti solo a Calabria e Sardegna. Un disinteresse per la politica mai così forte, come mai?
«Il dato sull’astensionismo è oggettivamente impressionante. C’è una quota cospicua del corpo politico che ha smesso di credere nella partecipazione. Vi concorrono molti fattori. Quello più grave è senz’altro la sensazione diffusa di una democrazia bloccata, con un personale politico la cui unica preoccupazione è perpetuarsi».

Quali sono le colpe della politica?
«Un dispositivo elettorale che sottrae all’elettore qualsiasi diritto di scegliere. Ecco perché parlo di democrazia bloccata. Non c’è niente di più demotivante di un sentimento di usurpazione, unito a quello della propria irrilevanza».

Come si combatte l’astensionismo e il pensiero che “tanto uno vale l’altro” che voto a fare?
«Modificando la legge elettorale. E affrontando seriamente la questione della democrazia interna ai partiti. E poi allargando lo sguardo, cercando di comprendere quello che accade al di fuori delle segreterie. Non ho mai visto candidature più autoreferenziali e prive di qualsiasi rappresentatività».

Torniamo ai vincitori e ai vinti: a Napoli, il Movimento 5 Stelle si conferma primo partito con oltre il 40% dei voti. Il Pd in molte circoscrizione campane è arrivato addirittura dietro il centrodestra. È una sconfitta di Letta o anche di De Luca?
«Formalmente di Letta. Sostanzialmente di entrambi, è ovvio. Per l’ennesima volta il partito va rifondato, a partire da una riflessione profonda sulla propria identità. Insisto nel ripetere che anche le pessime candidature hanno giocato un ruolo decisivo. I 5 stelle hanno avuto buon gioco nell’occupare uno spazio lasciato libero dal PD, percepito come partito più di potere che di governo, ormai lontanissimo dalla rappresentanza di quegli interessi che un tempo ne costituivano la ragion d’essere».

Il reddito di cittadinanza ha fatto da ago della bilancia. È considerabile voto di scambio?
«Il reddito di cittadinanza è una misura che va senz’altro corretta ma mantenuta. Ha svolto una funzione essenziale, durante la crisi pandemica (che è anche crisi economica e occupazionale), di contenimento del conflitto sociale. Chi la liquida come voto di scambio lo fa da una posizione di privilegio. È la sindrome di Marie Antoinette, che ironizza sulle masse tumultuanti che rivendicano il diritto al pane. Sappiamo tutti la fine che fece…»

Che responsabilità hanno i dem nelle scelte dei candidati nei vari collegi, persi poi tutti?
«I Dem hanno fatto scelte suicide, prescindendo del tutto dai territori. La stragrande maggioranza degli elettori ignorava chi fossero i candidati, spesso dei perfetti sconosciuti, magari premiati per la fedeltà ai capi, o qualche figura improbabile. Poiché non c’era nessun effetto trainante di un leader carismatico, ecco spiegato il risultato».

Queste elezioni segnano la fine di Luigi Di Maio e Luigi de Magistris. Fine del populismo?
«Il populismo continua, magari con altri mezzi e in altre forme. È tuttavia evidente che un governo populista è un ossimoro: lo capirà anche la Meloni, che non a caso prova ad assumere una veste istituzionale per rassicurare il contesto extra-nazionale nel quale la politica si muove. Di Maio e De Magistris sono molto diversi. Il primo ha pagato, come Letta e Salvini, la propria lealtà a Draghi. La sua parabola politica è stata una vera e propria abiura del populismo, un tentativo di riverginarsi dopo il sodalizio col gemello diverso Di Battista. De Magistris ha sperimentato quanto sia agguerrita, sebbene elettoralmente dispersiva, la concorrenza sul fronte della protesta».

Giorgia Meloni fa il pieno e vince. Che sentimento esprime?
«La sua vittoria così netta esprime un sentimento di insofferenza verso il commissariamento permanente della politica. Stando all’opposizione, in solitudine, ha capitalizzato tutta la rabbia sociale e vampirizzato alleati e avversari. Meloni è chiamata a una prova impegnativa: dimostrare il proprio valore nel governo del Paese. Passa dunque da una posizione comoda (un’opposizione urlata, che ha poi moderato intelligentemente i toni nell’arco della campagna elettorale) a un percorso disseminato di pietre d’inciampo (le molte crisi che dovremo affrontare). L’auspicio è che il suo governo lasci stare i diritti civili e non si appiattisca sulle posizioni di Visegrad. Che sia una donna di destra non deve però farci dimenticare che sarà la prima volta in cui l’Italia avrà una donna presidente del Consiglio. Questa è comunque una novità di portata storica. Speriamo non sia un’eccezione».

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Giornalista napoletana, classe 1992. Affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.