L'intervista
Il rettore Giusti: “Niente paura, democrazia Usa su binari saldi”
A capo dell’università Link di Roma, studia il sistema politico americano e assicura sulla solidità delle istituzioni: “Chiunque sarà eletto starà nei binari delle intese internazionali”
La campagna elettorale negli Stati Uniti è particolarmente tesa. C’è chi intravede una guerra civile sotterranea, tra due visioni del mondo dalla rottura insanabile. Ne abbiamo parlato con il Magnifico Rettore dell’Università degli Studi Link Campus di Roma: il professor Carlo Alberto Giusti, comparativista, è un profondo conoscitore degli Usa dove è spesso in missione.
Rettore Giusti, gli Stati Uniti stanno affrontando una sfida complessa, con elezioni di cui si parla in termini di spaccatura sociale profonda. Lei ritiene che siano timori fondati?
«Trovo che la preoccupazione che si sta generando intorno alle elezioni di novembre sia fondata su una scarsa conoscenza del sistema politico statunitense. Quando si parla degli Stati Uniti d’America si parla della più grande democrazia del mondo: una macchina istituzionale solida, rodata, fondata su un complesso equilibrio tra poteri che si controllano e compensano tra di loro, impedendo a uno di prevalere sull’altro. Nel linguaggio politico corrente siamo abituati a personalizzare le istituzioni con i leader che a turno le rappresentano. È invece sbagliato applicare questo paradigma alle democrazie, che per definizione sono caratterizzate da un equilibrio di poteri fondato su una Carta costituzionale, che garantisce la prevalenza dell’interesse comune di fronte al turn over delle diverse personalità che sono incaricate di guidarla: in democrazia i leader sono tasselli sostituibili di un’architettura istituzionale complessa che sopravvive dopo la loro uscita di scena. Questa è la forza principale delle democrazie».
Dunque lei sostiene che i leader non abbiano sostanziale potere, e che le loro caratteristiche risultino di fatto indifferenti nelle dinamiche politiche di una democrazia?
«A differenza delle autocrazie i leader democratici sono eletti, e rappresentano quindi la maggioranza dell’elettorato che attraverso l’esercizio del consenso ha assegnato loro il mandato a governare. Ma si tratta di un consenso hic et nunc, fornito sulla base di un programma elettorale contingente e in relazione a un contesto politico mutevole. Questo significa che il leader è chiamato a modulare le proprie decisioni politiche nel tentativo di conservare quel consenso, in un precario equilibrio tra l’esigenza di incarnare i desiderata dell’elettorato e la responsabilità di orientarne la direzione esercitando il proprio ruolo di classe dirigente».
Tornando alle elezioni americane: l’Economist ha scritto che la vittoria di Donald Trump rappresenta il pericolo più grande per il mondo. Ha senso questa paura?
«Mai aver paura dei risultati elettorali di una democrazia, per quanto “controcorrente” ci appaia il linguaggio del candidato in campagna elettorale. Già nel 2016, durante la prima campagna elettorale di Donald Trump, le opinioni pubbliche dei Paesi occidentali erano state travolte da un’ondata di preoccupazione – a volte non priva di tratti isterici – in merito al destino dell’Occidente nel caso in cui il tycoon avesse conquistato la Casa Bianca. Ma gli Usa sono “sopravvissuti” alla 45esima presidenza esattamente come a tutte le altre».
Ma quindi, se è vero che le istituzioni sopravvivono, è indifferente che vinca l’uno o l’altro?
«Le istituzioni democratiche sono pensate e costruite per sopravvivere, ma questo non significa che sia indifferente la vittoria dell’uno o dell’altro: chi vincerà orienterà la direzione che il Governo USA prenderà nel prossimo futuro in termini di politica economica, riforme sociali e – quello che più direttamente ci riguarda – posizionamento geopolitico nel Vecchio Mondo.
Ma sono convinto che chiunque vincerà il 5 novembre traghetterà il Paese tra le correnti globali senza traumi improvvisi, nel rispetto delle alleanze e degli accordi internazionali, e soprattutto di quelle regole che garantiscono la tenuta complessiva di un sistema fondato sul diritto internazionale; quel sistema che, pur messo alla prova dalle recenti tensioni, continua a rappresentare il frutto più importante dell’impegno degli Stati Uniti sullo scenario globale».
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