“Penso che nessun medico debba essere messo di fronte a certe scelte terribili”. È il pensiero di una figlia che ha perso suo padre a causa del Covid-19. Un virus contro il quale siamo in guerra, come hanno detto da subito politici e giornalisti. E quindi le trincee sono gli ospedali, il nemico è invisibile, i soldati sono il personale sanitario. L’emergenza ha abituato a questo tipo di retorica militare e a familiarizzare anche con termini come triage, lo smistamento, la redistribuzione dei malati. “Una funzione infermieristica – scrive il ministero della Salute – volta alla identificazione delle priorità assistenziali attraverso la valutazione della condizione clinica dei pazienti e del loro rischio evolutivo, in grado di garantire la presa in carico degli utenti e definire l’ordine d’accesso al trattamento”. E che in momenti di emergenza può portare a decisioni drammatiche, come in questo racconto di una famiglia del milanese e di un uomo di 80 anni.

“Domenica 8 marzo, verso sera, presenta un lieve innalzamento della temperatura, 37,5 circa. Non ha né tosse né raffreddore e nulla fa pensare a qualcosa di grave perché il virus, a Nerviano e dintorni, non è minimamente presente”, scrive sui social Marianna, figlia dell’uomo. Lunedì e martedì la febbre torna a salire, oltre i 38 gradi, quasi 39, ma passa con Paracetamolo. E l’uomo mangia e gioca a carte con la moglie. Quest’ultima decide comunque di chiamare il medico il giorno dopo. “Lo visita, polmoni a posto, saturazione ok – continua il racconto – Dato che a ottobre ha fatto il cambio della valvola aortica, operazione riuscita benissimo e senza la minima conseguenza, il medico pensa a un’infezione. Noi siamo stupiti perché il 3 marzo è stato in ospedale, a Legnano, a fare la visita post operatoria dove la cardiologa conferma la perfetta riuscita e rimanda i controlli fra un anno. Mio papà non è iperteso e non ha nessuna patologia associata al cuore”.

Dietro consiglio del medico la famiglia si reca in Pronto Soccorso per il consulto di un cardiologo. L’uomo viene visitato e ricompare dopo più di mezz’ora in un’altra zona del pronto soccorso: quella del Covid-19. Gli è stata diagnosticata una polmonite. “Al momento non siamo veramente spaventati – ricorda la figlia – lui è lì in piedi, non sembra un malato. Non ha il fiatone. Mi dicono che probabilmente gli daranno una cura e lo rimanderanno a casa”.

Alle familiari viene detto di andare a casa, che solo dopo la visita verranno chiamate. Ma alle 20:30, scrive la donna, il padre è “ancora seduto su una sedia, in pronto soccorso, solo, senza cibo, senza alcuna attenzione, 80 anni. Mi metto in auto per andare lì e intanto richiamo il triage per l’ennesima volta. Mi dicono che è su una brandina, ha una flebo”.

L’ultima conversazione è straziante. Avviene tra l’uomo e la moglie: “Questa flebo è lenta, scende goccia a goccia, chissà a che ora vengo a casa. Cosa mi hai preparato da mangiare?”. L’uomo muore il sabato mattina. “Due giorni in cui non sappiamo cosa sia successo ma una cosa l’hanno detta, il rianimatore ha deciso di non intubarlo, non ritenendolo abbastanza forte, abbastanza giovane”.

La figlia definisce la sua “una denuncia oggettiva dei fatti”, non accusa direttamente il personale sanitario e quindi “negligenze avvenute di proposito ma, anzi, penso che nessun medico debba essere messo di fronte a certe scelte terribili. Il problema è sicuramente a monte”.

Redazione

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