Il nuovo saggio dedicato allo scrittore polacco
Il senso e il dramma di una missione senza scopo: Asor Rosa rilegge Conrad
Ho sempre letto Joseph Conrad con una passione speciale. Sono andato a rendergli omaggio a Cambridge, nel cimitero in cui è sepolto. Ne ho ripercorso le tracce a Cracovia, Varsavia, perfino a Vologda, in Russia, dove da bambino seguì il padre, in esilio dal governo zarista. Da ragazzo mi lasciavo inebriare dalle sue storie di giovani capitani lanciati verso il nulla oceanico alla ricerca di chissà quali amori.
Da adulto continuo ad accostarmi a lui, sfidando l’opinione di Ernest Hemingway che, nel necrologio uscito sulla Transatlantic Review (ottobre 1924), pur collocando l’autore di Lord Jim sul trono aureo, lo riteneva illeggibile dopo la prima volta. Diciamolo pure: c’è del vero in tale convincimento perché le pagine di questo scrittore-capostipite della modernità, polacco trapiantato sui pontili dove sventolavano le insegne della Union Jack, possiedono un ritmo lentissimo che, specie nei romanzi, potrebbe diventare proibitivo, tuttavia si lasciano dietro una gran quantità di nodi lirico-riflessivi tutti da sciogliere.
È quanto si propone di fare, alla magnifica età di quasi novant’anni, Alberto Asor Rosa nell’ultimo suo notevole saggio, L’eroe virile (Einaudi, pp. 109, 15 euro), incentrando una serrata e convinta analisi su tre grandi famosi pezzi brevi: La linea d’ombra (1917), Cuore di tenebra (1899) e Tifone (1902). Avendo in testa una tesi interpretativa, il critico altera volutamente la successione cronologica della composizione dei racconti iniziando a presentarci quello composto per ultimo, nel quale un giovane innominato ufficiale diventa vero uomo riuscendo a condurre in porto un veliero maledetto, arenato nella bonaccia, il cui equipaggio s’era ammalato di febbri tropicali. Questo significa “essere marinaio” (insuperabile l’espressione originale: seaman). Scrive Asor Rosa: «Stare dentro un sistema di regole, accettato e vissuto fino in fondo». E, poco più avanti: «Non si può sperare di andare oltre una buona condotta».
Nella seconda tappa del percorso di maturità che ci viene proposto, l’azione di resistenza etica acquista una connotazione, se possibile, ancora più stringente: Kurz, sprofondato nella foresta primordiale, aveva superato i limiti, scoprendo l’orrore, a differenza di Marlow, il quale si era fermato prima del baratro: del resto, se il più tipico alter-ego conradiano non lo avesse fatto, non sarebbe stato in grado di raccontarci alcunché. Ma a cosa gli è servito gettare lo sguardo nell’abisso? A niente, se non ad ammettere la propria impotenza (possiamo chiamarla anche ipocrisia o menzogna). I nostri margini di manovra, dobbiamo confessarlo, sono assai ridotti: forse non possiamo aspirare ad altro che alla “soddisfazione del lavoro ben fatto”, da Primo Levi, conradiano d’eccezione, attribuita all’operaio Faussone, impegnato a lavorare sui tralicci di mezzo mondo con la sua chiave a stella.
Ecco perché il capitano MacWhirr, protagonista di Tifone, capace di attraversare la bufera semplicemente mantenendo la rotta, diventa emblematico della condizione umana: anche quando tornerà «alla casetta dignitosa e mediocre di un sobborgo settentrionale di Londra, nella quale la sua famiglia abita, tra poltrone felpate e pendole di marmo nero», non riuscirà ad attribuire alla sudata vittoria contro le intemperie particolari significati. MacWhirr rappresenta quindi l’ideale a cui, nella prospettiva indicata, ci si dovrebbe attenere: comportarci in modo retto, senza essere intimoriti dal pericolo incipiente, è tutto. Fuorvianti sarebbero ulteriori consolazioni: politiche, religiose, esistenziali.
Alberto Asor Rosa è, da sempre, uno dei più importanti studiosi tassiani: di eroi se ne intende. Bisogna dunque concedergli credito nel momento in cui afferma, nell’importante capitolo introduttivo, intitolato Caso, caos, destino, libera scelta, sventura, che Conrad, rispetto a Mann e Musil, è impegnato in “un’ultima battaglia”: «la quête del Graal non avrà mai fine, anzi, da un certo momento in poi, non potrà neanche avere un inizio (e questa è, a guardarsi intorno, precisamente la nostra condizione presente)». A conti fatti ecco ciò che, secondo tale visione, ci lascia Joseph Conrad: «Tener fede eroicamente al rigore di una missione senza scopo». Fino a concludere, non trattenendo una qualche specie di amarezza: «L’eroe virile che egli rappresenta forse non ci piace, certamente non ci fa felici, ma non smette di emanare un’invincibile seduzione. Forse c’è restato solo quel tipo di uomo, nel corso degli ultimi due secoli, a farci sentire meno totalmente ricusabile e abbietta la condizione virile. E in questo, forse, si misura la nostra attuale miseria».
Allora, per riascoltare gli squilli e le trombe della “sepolta adolescenza”, siamo spinti a ricombinare i fattori: ad esempio, se mantenessimo la sequenza compositiva originaria, che vedeva La linea d’ombra quale ultimo tassello della ipotizzata trilogia, potremmo evidenziare in Conrad un romanticismo antiquariale, come volo di colombe dall’antica finestrella: il sentimento in grado di elettrizzare Cesare Pavese e Silvio D’Arzo, due fra i suoi più suggestivi lettori. Le carte sarebbero redistribuite così: prima l’irruenza passionale, incontenibile e furente, di Kurz, poi il protocollo rispettoso di MacWhirr. Persiste, nel vecchio e solerte capitano, il disincanto successivo allo svolgimento del mansionario: non si accontenta del faticoso approdo, vuole anche restituire ai coolies i dollari sequestrati dai suoi marinai nel momento culminante della tempesta.
Lo fa per sentirsi a posto con la coscienza, scansando con malcelata insofferenza ogni euforia. Dopodiché Conrad, lui no, non si ferma: nel racconto finale, ed è questa la sua bellezza, intende ripartire, sospinto dall’illusione di libertà, in un controcanto senile, nonostante l’adulta consapevolezza, per consegnare a chi verrà dopo di lui, i ragazzi ancora carichi di speranza, un testimone che non sia troppo scottante: “Solo i giovani hanno di questi momenti…”
© Riproduzione riservata