L'editoriale
Il Var condanna Romano Prodi: l’ultima puntata del finto scandalo, un ingranaggio consolidato

C’è stato bisogno del Var. Nel surreale campionato politico italiano, la vecchia moviola non è bastata. Solo con le nuovissime tecnologie si è appurato che Romano Prodi ha davvero tirato i capelli della giornalista Mediaset Lavinia Orefici. Un gesto paternalista e fastidioso che sarebbe da cartellino giallo e diffida, se non fosse che il professore era fuori onda e fuori tempo anche da giovane. È sempre quello che con voce fintamente melliflua sembrava commentare e invece sibilava. È quello del “qui volano polpette sotterranee avvelenate”. Cosa vogliamo che sia una movenza da nonno nervoso perché la nipotina non studia? Ormai lui funge da riserva della Repubblica (nel senso del quotidiano-guida del Pd), ovvero interviene ogni volta che serve un’ovvietà politically correct. La domanda su Ventotene, non solo legittima ma persino scontata, non gli piaceva. Tutto qui. Ha sentito odore di trappola. Del resto, lo faceva anche quando era premier: più che sulle sue risposte, si concentrava sull’opportunità delle domande. E non ha trattenuto la stizza. Vogliamo espellerlo e squalificarlo per un capello sfiorato? Sono giorni e giorni che un fatto al massimo degno di Striscia la notizia diventa caso nazionale. Che prolunga l’altra sceneggiata, quella su Ventotene, dove la libera espressione di opinioni, sfumature e scivoloni su un documento del 1941 ha fatto da pretesto per l’ennesima fiction su fascismo e antifascismo. Una macchina del tempo che non si inceppa mai. Si erano appena placati i plotoni dei difensori eroici della proprietà privata contrapposti ai neo-partigiani, che ci esplode in mano un nuovo cortocircuito. Già, perché all’imperizia prodiana “di sinistra” ha subito risposto una campagna di vittimismo “di destra” che, a guardarla da Marte, sembra che in Italia il giornalismo e le donne siano stati offesi per sempre. Ormai si attende solo la richiesta di imporre a Prodi un Daspo e incriminarlo per sessismo aggravato. Sembra un gioco, ma è un gioco al massacro. L’ingranaggio consolidato del finto scandalo, animato dal nulla e nel nulla destinato a finire, sarebbe anche divertente, perché permette di sfogare istinti grossolani che un tempo si sarebbero detti “da bar” mentre oggi sono più da chat o da social. Ma c’è il piccolo particolare della distrazione di massa, del blob indistinto in cui finiscono disfide inventate e verissime tragedie. Ogni giorno ha la sua perla, nella collana dell’irrilevante che diventa dittatura mediatica. La militarizzazione di Cortina, l’avvocato e le borsette di Daniela Santanchè, la cittadinanza onoraria di Salò a Mussolini, il nuovo libro di Veltroni. Oggi, fra la ciocca di Lavinia e le tante gag della commedia pubblica, si apprende che dal 2008 il salario reale italiano è calato più che in tutta Europa. E, a proposito di Europa, maggioranza e opposizione per ora non danno segni di cercare una strategia coerente. Preferiscono volare alto e unirsi al poeta: “Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.
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