Interessanti i dati recentemente diffusi (ottobre 2024) dall’Ufficio Centrale di Statistica dello Stato di Palestina a proposito della presenza femminile nelle istituzioni governative, politiche, amministrative e nelle realtà rappresentative e professionali a Gaza e nella West Bank. Definiscono un luminoso punto di riferimento per la valutazione delle prospettive di autodeterminazione del popolo palestinese e, soprattutto, preconizzano il tenore civile e dei diritti nello Stato di cui si reclama il riconoscimento. Cominciamo dal settore pubblico nella realtà di vertice decisionale, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.

Cercasi donne nelle istituzioni palestinesi

Nel Comitato Esecutivo: maschi, 100%. Nel Consiglio Centrale: maschi, 78%. Nel Consiglio Nazionale: maschi, 90%. La rappresentanza femminile in tali ambiti, annota il rapporto, “è ancora debole”. Si noti, “debole” (10% di media, e zero in sede esecutiva). Passiamo alle posizioni governative. In sede centrale: maschi, 84%. In sede locale, a Gaza: maschi, 100%; nella West Bank: maschi, 99,3%. Vicepresidenze delle amministrazioni locali nella West Bank: maschi, 94,6%. In sede diplomatica (ambasciatori): maschi, 83%. Nelle realtà associative, professionali e sindacali la situazione è analoga. Nelle rappresentanze universitarie: maschi, 91,3%. Nelle rappresentanze dell’avvocatura a Gaza: maschi, 83,3%; nella West Bank: maschi, 88,9%. Nella magistratura giudicante della West Bank: maschi, 77%. Nella pubblica accusa: maschi, 75,2%.

Funzioni direttive nelle Camere di Commercio, dell’Industria e dell’Agricoltura a Gaza: maschi, 98%; nella West Bank: maschi, 98,2%. Capi redattori a Gaza: maschi, 100%; nella West Bank: maschi, 75%. Giornalisti registrati nel sindacato di categoria a Gaza: maschi, 83,3%; nella West Bank: 76,7%. Vediamo altre rappresentanze associative nelle professioni. Dentisti: maschi, 90,9%. Farmacisti: maschi, 85,7%. Ingegneri: maschi, 93,3%.

I diritti delle donne: pensione se il figlio si fa esplodere

Dati noiosissimi, che si squadernano pressoché tutti uguali in una scena di allocazione delle donne ai margini (o proprio al di fuori) di tutti gli ambiti decisionali e rappresentativi. È la fotografia di un impianto discriminatorio che certamente non vige solo laggiù, per carità, anzi altrove in Medio Oriente si trova anche di peggio (salvo che in Israele). Ma è perlomeno curioso che tra i diritti di cui si reclama la protezione per i palestinesi manchino quelli di cui dovrebbero essere titolari questi soggetti abbastanza dimenticati, appunto le donne. È perlomeno curioso che tra i tanti motivi di denunciata oppressione di cui soffre la popolazione palestinese non si figuri l’oppressione che la società palestinese medesima infligge a una metà di sé stessa, la metà della popolazione costituita dalle donne con il diritto di prendere la pensione se il figlio si fa esplodere con una cintura esplosiva, ma senza il diritto di accedere in condizioni di parità a nessun posto di rilievo nelle amministrazioni, nelle professioni, nelle sedi decisionali e rappresentative.

È verosimile che anche per loro, anche per le donne palestinesi, come per i palestinesi tutti, la dotazione di diritti riconoscibili e meritevoli dipenda dal fatto che sia Israele a comprimerli; e che diventi invece un dettaglio opzionale, una cosa che non importa e per la quale è superflua qualsiasi rivendicazione, se a primeggiare sono le ambizioni rivoluzionarie che vogliono regalare a quelle donne un territorio più vasto – dal fiume al mare – per godersi la propria condizione di sottomesse.