Robert Dandurande (“Bob”) viene trovato morto annegato in un punto della Senna, in una zona di campagna ben fuori Parigi, dove andava sempre con la moglie Lulù e trovava lì i soliti amici. Allegro – tra un “bianchino” e l’altro ripeteva sempre la frase «che spasso!» – una mattina Bob era uscito con una barchetta da pesca; ore dopo lo hanno trovato con due giri di corda intorno alla caviglia, la testa sott’acqua. Il “grande Bob”, come lo chiamano gli amici, è un’ombra. Noi lo indoviniamo ma non lo “vediamo” mai. Che gli è successo? Incidente? Omicidio? Suicidio? All’amico Charles Coindreau, medico di base a Parigi, che interpreta qui la figura dell’investigatore, quella del suicidio appare l’ipotesi più probabile: due giri di corda intorno alla caviglia, perché?

Georges Simenon in questo “Il grande Bob” (Adelphi, traduzione di Simona Mambrini) parte come al solito da un fatterello per scendere negli abissi umani, dove tutto diventa possibile e senza una ragione precisa. Il grande scrittore belga, come nei Maigret così negli innumerevoli romanzi, non ha fatto altro che vagare con la penna nei gironi infernali di anime derelitte “dentro”, magari in contrasto con la loro immagine esteriore. Esattamente come accade a Bob, omone simpatico e pieno di pensieri insondabili ma che s’immaginano fervidi, a suo modo generoso e protettivo con Lulù, la moglie non felice e così sottomessa. Già, Lulù, una donna finita, probabilmente non se lo meritava… Ma chi sa veramente chi fosse Bob? Infatti rimugina il medico-investigatore: «Che cosa sappiamo degli altri, in definitiva, quando neanche di noi stessi sappiamo granché?».

Gli amici, poi! «In una città come Parigi, dove quattro milioni di persone vivono fianco a fianco, in uno struscio senza posa, la parola amico non ha lo stesso significato che ha da altre parti». Charles, il medico narratore, era amico di Bob così, istintivamente, senza tante spiegazioni. Sempre quella frase: «Che spasso!»: un’ironia che nascondeva chissà che cosa. Un mistero. «D’accordo, era un fallito, come ho sentito ripetere a più riprese da quando è morto, ma un fallito lucido, consapevole, uno che aveva scelto di esserlo, e ai miei occhi assumeva all’improvviso una certa grandezza». Mentre cerca di entrare nella testa di Bob, il medico piano piano si trova a riflettere su di sé, sulla solitudine malcelata che caratterizza le sue giornate tutte uguali; e a un certo punto diventa lui il protagonista del romanzo, un uomo insoddisfatto che passa il tempo in mezzo a malati di ogni sorta, ha una moglie di scarsa attrattiva, si rifugia in una penosa scappatella come accade a tanti uomini dall’esistenza poco luminosa.

E si ritorna al punto. Bob. Com’era davvero? Se è stato suicidio, perché? Dai suoi familiari della Parigi-bene il dottore non ricava che chiacchiere inutili che non forniscono nessuna risposta. Poi infine una traccia solida viene fuori: ma davvero c’è un’unica risposta che possa spiegare il motivo per cui un uomo si toglie la vita? Ecco che, pensiero dopo pensiero, Simenon giunge alle soglie del suo personalissimo esistenzialismo che egli, pur essendo lontano dai gruppi intellettuali francesi di quegli anni (il romanzo è del 1954), deve aver in qualche modo percepito: un esistenzialismo consumato alla svelta come un bicchierino di bianco, come quelli che piacevano tanto al grande Bob, quando ancora preferiva la vita.