«Caro Alberto – scriveva Pasolini in una celebre lettera a Moravia poco prima di morire – ti mando questo manoscritto perché tu mi dia un consiglio – si trattava del manoscritto di Petrolio, il “romanzo di iniziazione” uscito postumo nel 1992 –. È un romanzo, ma non è scritto come sono scritti i romanzi veri: la sua lingua è quella che si adopera per la saggistica, per certi articoli giornalistici, per le recensioni, per le lettere private o anche per la poesia». La dichiarazione di intenti pasoliniana è poi comparsa in esergo a Qualcosa di scritto, il romanzo-saggio del 2012 in cui Emanuele Trevi racconta la sua rincorsa sulla scia dello spettro dello scrittore di Casarsa tra le pagine di Petrolio, quando negli anni Novanta entra in contatto con un’impetuosa Laura Betti al Fondo Pasolini, la «Pazza», la bisbetica innamorata, elettasi sua vedova ed erede. Ciononostante, non è solo il soggetto o il titolo – quel Qualcosa di scritto comparso già in Petrolio nell’omonimo Appunto 37 – bensì pasoliniana è la cifra stilistica propria di Trevi. Quell’abilità di muovere la macchina della narrazione così da alternare il piano della lingua dei saggi di critica letteraria alle altezze dello stile lirico e metaforico della poesia, la forma diaristica delle annotazioni alla transitorietà del mezzo fotografico, e che ritorna a manovrare magistralmente nell’ultimo romanzo, Due vite, edito da Neri Pozza.

Passeggiando da flâneur tra i suoi ricordi più melanconici, Trevi restituisce ritratti senza posa di scrittrici perseguitate, fotografi e autori eternati da antologie tascabili in libreria, cesellando la profondità dei suoi affetti pur con la povertà del lessico fisiognomico a disposizione della lingua. Nel suo ultimo romanzo, le due vite ritratte sono due luci spente, i suoi amici andati, Pia Pera e Rocco Carbone. Erudita slavista, traduttrice e scrittrice, lei, vagabonda sentimentale, malata di Sla e scomparsa nel 2016. Lui, scrittore saturnino, trascinato da un nome che suona per Trevi come «una perizia geologica», un colosso minerale corroso dall’infelicità, morto in un incidente stradale nel 2008. Tuttavia, le due vite sono anche quelle sulle quali Trevi si interroga in pagine memorabili sulla destinazione ultima dei nostri vissuti, per ricercarne l’autenticità, scavando fino alla riesumazione dei corpi sepolti e riportando in superficie il dettaglio, la trama e l’ordito di una letteratura che sopravvive all’erosione del tempo. Come già con Qualcosa di scritto, finalista allo Strega nel 2012, quest’anno Trevi ritorna a concorrere per il Premio, e sulle pagine de Il Riformista ha ribadito il potere della scrittura di evocare i morti e i limiti dell’editoria contemporanea nella società del perbenismo.

In “Due vite”, lei consiglia la scrittura a chiunque abbia nostalgia di qualcuno che non c’è più. Ma come si racconta la vita di persone scomparse evitando il rischio di cadere in patetismi, nella falsa retorica dei tempi andati e della sovrascrittura biografica?
Per prima cosa, bisogna costruire un narratore. Attraverso la giusta distanza, lo stile dell’unicità, il narratore deve rendersi in grado di mettere in rilievo l’irripetibilità di ogni destino umano, anche il più apparentemente misero e prosaico, perché in quel destino passa tutto l’universo e in una maniera in cui non passa in nessun altro essere umano. È questo sforzo che mi interessa nella letteratura. A differenza degli altri saperi, che per funzionare hanno bisogno dell’intelligenza, in letteratura non esiste un’oggettività, anche il non comprendere è una forma di comprensione, per cui bisogna lavorare sul proprio punto di vista al fine di fare apparire l’altro.

La topografia di Roma è una costante palpabile nei suoi libri. Piazza Cavour del Fondo Pasolini, Via dei Cappellari di Metastasio, Via del Corallo di Amelia Rosselli e ora la Roma gaddiana di Rocco Carbone. Eppure si ha sempre l’impressione che più di un luogo, la sua città sia una porzione di tempo…
La mia concezione del tempo è troppo astratta, per questo ho bisogno di uno spazio in cui si manifesti il tempo. A Roma, che è per me la fornace delle cose, noi ci orientiamo nello spazio, in quanto ci orientiamo nel tempo, generiamo sovrapposizioni e sottrazioni che riguardano sia la nostra vita, sia l’ammasso secolare di segni del passaggio delle generazioni. Tutto questo mi rende evidente che il tempo è un lavoro, un processo, è qualcosa che polverizza, un concetto filosofico incollocabile. Dov’è il tempo? Negli orologi? Nella nostra testa? Nel dizionario? Quando ero ragazzo leggevo molto Proust, e quello che lui fa con la cattedrale di Combray è rendere visibile il tempo dentro uno spazio, affinché diventi lo spazio dei tempi. Così come quel filo di latte che esce dalla brocca della Lattaia di Vermeer, ecco quello è il tempo. Un gesto umile, quotidiano, nel quale Vermeer rivede la maternità.

Pia Pera è stata una figura poliedrica e controversa nel panorama letterario italiano. La “scrittrice pornografica” condannata per “Il diario di Lo”, ha poi ha indossato i panni di una donna più rassicurante, scrittrice della terra e attenta alla cura del giardino. L’Italia non era ancora pronta per la carica sessuale della sua scrittura giovanile, lo sarà mai?
Essendo cresciuto in pieno Novecento, vedo molto più perbenismo oggi che in passato. Quando eravamo piccoli eravamo convinti che la storia della libertà fosse progressiva, perché ci davano da leggere Croce, Gramsci, ed eravamo convinti che alla fine i buoni vincessero. Oggi invece i buoni non solo non vincono ma sono diventati anche bacchettoni. Siamo culturalmente degli esodati da una terra di nessuno e non c’è nulla di peggio del senso della propria superiorità morale. Indubbiamente Pia aveva una mentalità libertina e i suoi libri avevano lo scopo di opporre alla società un desiderio di autonomia, per cui anche nella seconda parte della sua produzione, gli orti e i giardini sono luoghi dell’autonomia nei quali ricavarsi un mondo nel mondo, imparare a essere sovrani anche di un quadrato di terra.

«Oggi dura più un latticino che un libro». Questa sua considerazione introduce i grandi problemi della letteratura, la durata e l’oblio, ai quali si aggiunge l’annosa diatriba sul canone, che a sua volta conferisce durata. Qual è la sua posizione?
La durata non è una circostanza esterna alla creazione letteraria, anzi è come i congiuntivi o le virgole, è un ferro del mestiere. Il sistema delle novità editoriali a cui siamo abituati, che è legato al meccanismo marcio delle rese delle librerie, è assurdo, per me che appartengo a un’età in cui i libri, gli oggetti culturali, duravano tantissimo. Inseguendo le novità, oggi produciamo polvere e questo è corruttivo per gli scrittori, abbassando non solo la qualità, ma anche l’autenticità. Uno scrittore che scrive un libro ogni due anni rende la sua carriera uniforme, al contrario, la carriera di uno scrittore deve registrare come un sismografo le sistole e diastole della vita, i periodi di fertilità e quelli meno fertili, che vanno comunque rispettati.

Cosa scriverebbero oggi Rocco e Pia?
Rocco avrebbe sicuramente continuato per la sua strada di “disossamento”, la sua ricerca sarebbe continuata ad andare nella direzione del mito della parola più sobria ed efficace. Pia si sarebbe scocciata di scrivere di giardinaggio. Era un’esploratrice, sarebbe scivolata dal suo ruolo nel giardino con grazia e leggerezza, pur continuando questa vita per sempre. Sarebbe stata comunque un’altra bella avventura!

Dopo “Due vite”, ha ancora qualche rimorso?
Devo ammettere che mentre scrivevo li ho sentiti molto vicini. All’inizio, hanno accolto il libro con diffidenza, poi hanno capito cosa volevo fare. Eravamo soliti essere molto sinceri tra di noi pur non avendo le stesse idee, però questa cosa l’ho scontata prima. Adesso, per quanto possa sembrare una pazzia, li sento come se a loro il libro fosse piaciuto.