Dopo il G20 a Roma
Intervista a Jean Paul Fitoussi: “Il riscaldamento globale si combatte con la lotta alle diseguaglianze”
«La lotta contro il cambiamento climatico non è altra cosa rispetto ad una lotta contro le diseguaglianze sociali. La questione climatica è innanzitutto il riflesso di una gigantesca questione sociale irrisolta. Un mondo sempre più diseguale è un mondo sempre più insalubre». A sostenerlo è uno dei più autorevoli economisti europei: Jean Paul Fitoussi, Professore emerito all`Institut d`Etudes Politiques di Parigi e alla Luiss di Roma. È attualmente direttore di ricerca all`Observatoire francois des conjonctures economiques, istituto di ricerca economica e previsione.
Professor Fitoussi, dal G20 di Roma sono uscite tante dichiarazioni d’intenti e impegni proiettati al 2050 e oltre. Come la vede?
Io credo che il mondo sia in uno stato di stallo tale che non c’è cooperazione. Non mi meraviglierei delle tante dichiarazioni. È usuale in eventi come questi. Tante belle parole, tanti bei bla bla, tante chiacchierate, as usual. Eventi come il G20 sono anche un modo per mostrare ai popoli che i governi fanno qualche cosa. È un’operazione di comunicazione. Poi c’è il contesto attuale nel quale emerge con chiarezza, al di là di dichiarazioni di circostanza, come non vi sia nessuna intesa internazionale. Né tra gli Stati Uniti e l’Europa. Né tra gli Stati Uniti e la Cina, o tra gli Stati Uniti e la Russia e neanche tra gli Stati membri dell’Unione Europea. Il caso del gas russo lo dimostra abbondantemente. Essendo in un mondo dove la cooperazione sta sparendo, è difficile immaginare che i leader politici prendano decisioni comuni che impegnino i loro rispettivi Paesi per il futuro. Non siamo in una fase in cui prende forma una visione condivisa del futuro tra i grandi Paesi del mondo. E dunque in un mondo sostanzialmente diviso è illusorio pensare che si possano prendere decisioni comuni vincolanti. Si può fare un elenco dei problemi, magari anche un’agenda delle priorità, ma quando si tratta di rinunciare a parte della propria sovranità nazionale o mettere a disposizione risorse per un bene comune, beh, questa è tutt’altra storia. Al massimo si condividono i problemi ma non le soluzioni ad essi. Per questo eventi come i G20 sono destinati a restare quello che sono: un vuoto d’azione riempito da un surplus di parole.
Un discorso che vale soprattutto quando si mettono al centro questioni che investono il futuro stesso del pianeta e di chi vi abita. La lotta al cambiamento climatico, ad esempio.
Adesso i governi hanno capito che la lotta contro il riscaldamento climatico implica il dover dare una importanza molto più grande di quanto sia stato finora fatto, alla questione sociale. Quello che ha impedito di condurre con efficacia la lotta al riscaldamento climatico è il fatto che quando si mette in moto questa politica si rende più povera una parte importante della popolazione, che protesta. Un discorso che non investe solo i tanti Sud del mondo ma riguarda anche l’Occidente più ricco, l’Europa stessa. Le faglie sociali attraversano anche le nostre società. Siamo arrivati ad uno stato di diseguaglianza tale che una parte sempre più consistente della popolazione non può sopportare. Non può sopportare, pena un ulteriore impoverimento, la lievitazione del pezzo del petrolio, per fare un esempio. I Paesi, non solo le leadership ma l’insieme della comunità nazionale, hanno capito che la storia è molto più complessa e che non è solamente il problema del riscaldamento climatico a proiettare pesanti ombre sul futuro del mondo, ma anche il problema della coesione sociale. Per certi versi, la lotta contro la diseguaglianza è propedeutica a quella contro il cambiamento climatico.
È pensabile che una lotta di questa portata, con tutte le implicazioni di cui lei ha parlato, possa essere condotta dall’Occidente senza un coinvolgimento di Paesi fondamentali quali sono la Cina e la Russia?
Direi proprio di no. È quello il problema. E qui torniamo all’inizio della nostra conversazione: i Paesi, quelli che fanno parte del G20 e molti altri ancora, non hanno lo stesso obiettivo. Non hanno lo stesso regime politico. La diseguaglianza importa in una democrazia, nei regimi dittatoriali non ha nessuna importanza. Viviamo un momento veramente difficile. Un momento in cui la politica americana non è più chiara. Quanto poi alla politica europea, quel poco che esiste ancora sta sparendo a una velocità enorme.
L’Europa. Il G20 di Roma ha segnato anche l’uscita di scena a livello internazionale della cancelliera Merkel. Come sarà l’Europa senza una figura forte come è stata la Merkel?
Non credo diversa. Perché prima della signora Merkel c’era Schröder, e anche lui ha fatto molto per la politica tedesca e per la situazione competitiva della Germania. Ora alla cancelleria ci sarà un altro, ma la Germania è la Germania. E si sa bene che la Germania avanza tra compromessi fra i partiti, i governi sono governi di compromessi tra le forze che ne fanno parte. I problemi sono più seri in quei Paesi dove la politica è spaccata, come in Francia e in Italia. In questi Paesi è molto più difficile. La coesione interna dà un vantaggio alla Germania, anche se il prossimo cancelliere non ha la statura della Merkel.
Il G20 di Roma ha segnato anche l’ingresso, da politico, di Mario Draghi. In questa Europa alla ricerca di leader competenti e forti, Draghi può rappresentare una opzione, una risorsa preziosa?
Draghi è chiaramente una opzione. Ma lo è se conduce una politica che renda l’Italia più forte. L’interrogativo è per il momento Draghi alla prova del compito italiano e non più di quello, da lui svolto ottimamente, della Banca centrale europea. Come andrà a finire non lo sappiamo ancora. In Italia c’è ancora un problema politico forte.
Professor Fitoussi, lei è sempre stato un paladino, un autorevole assertore di un ruolo attivo dello Stato in economia. Una sorta di Stato imprenditore. È questa la sfida fondamentale? E per affrontarla al meglio non occorre uno Stato federale europeo?
Stiamo parlando di Stati nazionali dove i governi non hanno quasi più potere, ma dove la popolazione ha bisogno di essere protetta. Lo abbiamo visto con il Covid. E la prima funzione dello Stato è quella di proteggere la popolazione. Altrimenti a cosa serve uno Stato? Oggi ci muoviamo in una situazione un po’ vaga. Non si sa chi protegge chi. Gli Stati nazionali non hanno più i mezzi e gli strumenti necessari per proteggere appieno la popolazione. La pandemia ha reso ancora più evidente e dolorosa questa situazione. Lo abbiamo visto in quei Paesi che hanno spinto all’eccesso la privatizzazione del sistema sanitario, disinvestendo nella salute pubblica. I problemi che dobbiamo affrontare tutti, nessuno escluso, come comunità nazionale, e anche a livello sovranazionale, dimostrano che il ritorno dello Stato è molto importante, essenziale. Vede, non c’è niente da inventare. Le funzioni fondamentali di uno Stato non variano nel tempo. Sono i problemi ad aggravarsi. Penso alla scuola, alla sanità, alla giustizia, all’ambiente… Un tempo di diceva “riforme di struttura”. E riforme di tale portata solo uno Stato può realizzarle. Questo vale per la salute, l’emergenza pandemica non è finita, ma anche per un’altra questione di primaria importanza…
Quale, professor Fitoussi?
Mi riferisco al Pnrr. Questi piani sono difficili da realizzare perché le istituzioni che nel passato sapevano scegliere gli investimenti, orientare le risorse, sono state spazzate via dal neoliberismo. La sparizione dello Stato ha creato un vuoto che impedisce di risolvere più velocemente e con maggiore efficacia i problemi che abbiamo. Di questo credo che la gente sia cosciente. Il problema in Europa è molto più complesso che in altre realtà, perché non esiste ciò di cui abbiamo bisogno, per lottare contro le diseguaglianze sociali, per una fiscalità più equa e condivisa: uno Stato federale. Ciò che manca all’Europa è una sovranità. Non esiste una sovranità europea e neanche più una sovranità nazionale in grado di far fronte alle grandi sfide del nostro tempo, dal cambiamento climatico alle diseguaglianze sociali. L’Europa presenta diversi vizi di costruzione e, ora più che mai, appare un continente svuotato di sovranità. Questo aspetto mette in condizioni di debolezza l’Ue rispetto alle altre potenze.
All’Europa manca una testa?
Direi che manca tutto il corpo.
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