Anche se il Colle resta un risiko...
G20, grande successo per Draghi che ora punta al Quirinale
Colpiva, ieri mattina, scorrere la rassegna stampa internazionale: in tutte le prime pagine c’era un titolo dedicato a Mario Draghi e all’Italia. Al “successo” del G20 e “all’incredibile lavoro” svolto dall’Italia del governo Draghi. Un successo a ben vedere più personale che di agenda in senso stretto (anche se il documento finale, sottoscritto da tutti i 20 e non era scontato, è ottimo punto di partenza per la Cop 26), che rilancia tra le altre cose il ruolo delle diplomazie e il metodo del multilaterialismo. I microfoni del G20 non hanno fatto in tempo a spengersi che la politica nazionale è subito tornata a dibattere. E ad interrogarsi. Sulla legge di bilancio che tra oggi e domani arriverà al Senato. E sul gran risiko del Quirinale. Anzi, sarebbe meglio usare il termine che anche a palazzo Chigi va per la maggiore: “il caos Quirinale”.
Non c’è dubbio che il Presidente del consiglio esca da questa tre giorni sotto i riflettori del mondo più forte. Più forte per fare cosa, però? E a questo punto inizia quello che a torto o ragione e con toni un po’ di dissacranti viene chiamato il gran risiko del Quirinale. Non ci sono fonti ufficiali in questa storia. Perché nessuno a livello parlamentare osa violare la consegna che di «Quirinale si parlerà da gennaio in poi, per rispetto a Mattarella e perché adesso c’è da approvare la legge di bilancio». Ma la “casella” Quirinale è al centro di ogni capannello che si forma nelle pause d’aula alla Camera, al Senato, nei vicoli di Roma tra Montecitorio e palazzo Madama. Al centro di telefonate e chat. L’opinione condivisa ieri era che «adesso Draghi è senza dubbio più forte per decidere cosa fare a gennaio, restare a palazzo Chigi ma anche andare al Quirinale ed essere poi lui colui che deciderà, dopo il necessario interregno tecnico del premier più anziano (in questo caso Brunetta) a chi affidare il governo per fare una nuova legge elettorale».
Un attimo dopo iniziano però i distinguo. Che sono vari e molteplici e s’intrecciano con i tormenti che ogni partito e coalizione sta attraversando in cerca di programmi, leadership e alleanze in vista di un voto politico che dovrebbe arrivare a fine legislatura, nel 2023. Ma anche prima.
L’opzione Quirinale “subito” sarebbe la più gradita dallo stesso premier che rigorosamente non ha mai fatto trapelare una sola sillaba sul tema. Diventare Presidente della Repubblica – è il ragionamento che fanno in molti – «sarebbe la più grande assicurazione per l’Italia, per l’Europa e per la realizzazione del Pnrr anche in forza del fatto che si tratta della carica più lunga, ben sette anni». A chi oppone a questa affermazione il fatto che il Capo dello Stato è certamente una garanzia ma può muovere fino ad un certo punto le pedine della macchina amministrativa e gestire gli equilibri politici, la risposta è che, invece, «la Presidenza Draghi, con il suo standing internazionale e nazionale, sarebbe nei fatti un semipresidenzialismo che avrebbe potere decisionale su ogni passaggio della macchina amministrativa». Una sorta di premier dimezzato dal potere del Capo dello Stato. Lo schema sarebbe più o meno questo: Draghi al Quirinale nomina un premier che nei prossimi mesi oltre a seguire il Pnrr garantirebbe la legislatura il tempo necessario per cambiare la legge elettorale. Passaggio questo indispensabile dopo il taglio dei parlamentari.
Il problema è che i partiti e le coalizioni hanno progetti, paure e ambizioni diverse e spesso non conciliabili con questo scenario. E con i numeri dei Grandi elettori, circa mille voti, deputati, senatori e delegati regionali. A oggi, non ci sono le condizioni per un’elezione forte, a maggioranza assoluta, che è quella cui ambirebbe Draghi il cui profilo uscirebbe indebolito da un’elezione di parte, dalla quarta votazione in poi quando basta la maggioranza semplice. I numeri quindi sono ad oggi il più grande ostacolo alla presidenza Draghi. Cerchiamo di capire perché. Cominciamo dai 5 Stelle. Domenica, in pieno trionfo Draghi, Giuseppe Conte, detentore – in teoria – del più importante pacchetto di voti in Parlamento, ha parlato ai suoi e ha cercato di tranquillizzarli: «Eleggere Draghi al Quirinale non coincide con la fine anticipata della legislatura che può andare avanti ancora i mesi necessari per la nuova elettorale». Tra una cosa e l’altra – ad esempio il nuovo premier, il quarto di questa legislatura, dovrebbe quasi certamente fare la legge di bilancio – si andrebbe a votare ai primi del 2023. Una data chiave per i parlamentari grillini che oggi smentiscono categoricamente l’opzione Draghi-al-Colle-subito.
Per motivi poco nobili: forse un terzo di loro tornerebbe in Parlamento e nessuno ha voglia di perdere mesi di legislatura e di indennità mensile. Nessuno però si fida dello scenario di Conte. Il voto per la Presidenza della Repubblica ha troppe incognite e nessun leader o gruppo è in grado di controllare i voti in un Parlamento così frammentato. Come ha dimostrato il ddl Zan immolato in modo cinico sull’altare del potere e delle vendette personali. Una su tutte: il Pd di Letta su Italia viva e Matteo Renzi. Da sottolineare poi – è non è certo secondario – che la leadership di Giuseppe Conte poggia sulle sabbie mobili della base e dei gruppi elettorali. Mentre l’ex premier candidava Draghi al Colle, aggiunge anche che insomma, «il G20 non è stato tutto questo grande successo». Cosa che ha fatto imbestialire i ministri grillini. Se i 5 Stelle sono imprevedibili, altrettanto può essere detto del Pd di Letta. Forte del successo delle amministrative, il segretario dem dice e ripete che «Draghi non si tocca ed è un bene che resti a palazzo Chigi fino al 2023». Affermazione netta, più volte ripetuta, e che però va a sbattere contro almeno una decina di ottimi motivi, tanti quanti sono i candidati del Pd al Quirinale. I nomi sono noti: Franceschini, Gentiloni, Veltroni, lo stesso Prodi (al centro, in queste ore e involontariamente, di una piccola querelle proprio con Letta a proposito del ddl Zan) giusto per dire i più gettonati. «Ciascuno di loro – si fa notare – è in grado di bloccare almeno una trentina di voti. Sarebbe un Vietnam». Che Draghi appunto, non potrebbe sopportare.
È vero poi che il Pd, tutto sommato, alla lunga potrebbe vivere come un ingombro la figura di Draghi: a palazzo Chigi dove il segretario dem comincia a coltivare il progetto di un grande ritorno; al Quirinale dove il Pd vorrebbe elevare qualche padre nobile dei suoi. Insomma, anche nel Pd le idee non sono affatto chiare. E gli “avvertimenti” non mancano. Goffredo Bettini, l’ex consigliere di Zingaretti, quello di “o Conte o morte” ha detto l’altro giorno: «Attenzione perché non vorrei che poi Draghi restasse senza palazzo Chigi e senza Quirinale». Era un consiglio amichevole, ovvio. Nel centrodestra la situazione è ancora più confusa. In questa metà campo ci sono due paletti imprescindibili: la prossima Presidenza deve essere il risultato, anche, dei voti del centrodestra che sul Colle non tocca palla dai tempi del primo mandato a Giorgio Napolitano (correva l’anno 2006); la candidatura di Silvio Berlusconi è qualcosa con cui i parlamentari e i delegati regionali dovranno fare i conti. Dalla quarta votazione in poi.
All’interno di questi paletti c’è la “debolezza” internazionale di due leader, Salvini e Meloni, la cui leadership è in difficoltà; c’è il progetto, neppure tanto segreto, di Silvio Berlusconi di fare asse con la Lega, portarla nel Ppe e abbandonare Fratelli d’Italia al proprio destino di una destra sovranista sempre più isolata. L’ultima rogna in casa centrodestra è la grana Brunetta-Fascina, cioè Marta, cioè la compagna di Silvio Berlusconi. Un nuovo episodio nella querelle tra Forza Italia governista (i tre ministri Gelmini, Carfagna, Brunetta) e quella filosalviniana deflagrata circa tre settimane fa nella scelta del nuovo capogruppo.
Sabato Renato Brunetta ha scritto un messaggio nella chat degli onorevoli e ha attaccato Salvini che accusa sostanzialmente i parlamentari di essere attaccati alla poltrona, di mettere il proprio tornaconto personale davanti a quello del paese in vista della possibilità di elezioni anticipate. A quel messaggio, che sarebbe stato letto anche a Berlusconi, ha risposto per l’appunto la compagna del Cavaliere dando ragione a Salvini. La chat di Forza Italia ribolle: Quirinale, palazzo Chigi, Draghi. Chi sta con chi? Chi vuole cosa? Le Camere dovrebbero essere convocate dal 19 gennaio in poi. E alla fine saranno decisivi Italia viva (43 voti), gli ex azzurri di Coraggio Italia (31) e quei cento voti del gruppo misto che tra Camera e Senato da ora in poi saranno corteggiatissimi.
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