Lunedì scorso, il 16 novembre, le autorità irachene hanno impiccato 21 uomini. Un numero sconcertante. Erano accusati di terrorismo. Il Ministro degli Interni nel darne notizia non ha fornito dettagli né sull’identità dei giustiziati, né sui reati compiuti, limitandosi a dire che tra loro c’erano i responsabili di due attacchi suicida che causarono dozzine di morti nella città settentrionale di Tal Afar.

Le impiccagioni sono avvenute nel carcere di Nasiriyah, nel sud del Paese, l’unico in cui si compiono le esecuzioni. Gli iracheni lo hanno soprannominato la “balena”, perché questo vasto complesso carcerario, dicono, “inghiotte le persone”. L’Iraq ha dichiarato vittoria sullo Stato Islamico nel 2017, mettendo un numero impressionante di sospetti jihadisti sotto processo e compiendo esecuzioni di massa.  L’Iraq aveva dichiarato vittoria anche su Saddam Hussein nel 2006, mandandolo al patibolo ad Abu Grahib, il carcere di Baghdad che dopo essere stato la centrale delle torture del regime sadamita è divenuto poi la centrale degli abusi compiuti durante l’occupazione americana. Oggi Abu Grahib è chiuso. Ma la logica male scaccia male imperversa ancora.

La pena di morte può essere imposta per circa 48 reati, inclusi reati non di sangue come il danneggiamento di proprietà pubbliche. Ma la raffica di condanne capitali ed esecuzioni a cui abbiamo assistito nell’Iraq “liberato” è stata determinata per lo più dal reato di terrorismo introdotto nel 2005 con una definizione tanto ampia e generica da spiegare i numeri elevati, seppur sottostimati, che ci troviamo di fronte. Il Governo iracheno non fornisce dati sulle carceri né dice quanti sono quelli che vi si trovano con un’accusa di terrorismo. Però secondo alcuni studi sarebbero circa 20.000 i detenuti per rapporti con l’Isis. Oltre 1000 quelli mandati al patibolo dopo la “liberazione” dal dittatore Saddam. Sono stime, approssimazioni comunque sconcertanti. E a preoccupare ancora di più è il fatto che la mancanza di conoscenza sulla realtà carceraria e sulla pratica della pena di morte si riflette su quella relativa ai processi, assolutamente carenti sotto il profilo del giusto processo con casi ben documentati di confessioni estorte con la forza. E allora cerco un senso a tutto questo.

E lo ritrovo nel “Nessuno tocchi Saddam”, quella iniziativa nonviolenta che Marco Pannella condusse per scongiurare l’esecuzione di chi era stato un suo grande avversario politico. Fu lo sciopero della sete più lungo della sua vita, quasi 8 giorni e rischiò di andare in dialisi. Pannella mise in gioco la sua vita per quella di Saddam! Quel fatto, quella lotta incredibile giunse all’orecchio delle opinioni pubbliche mediorientali che allora compresero il senso dell’appello a una moratoria universale delle esecuzioni capitali che chiedevamo le Nazioni Unite facessero proprio. Fu anche così che riuscimmo a porre nel 2007 la pietra miliare nel processo abolizionista storicamente in atto della Risoluzione dell’Assemblea generale dell’ONU per la moratoria universale delle esecuzioni capitali.

Ora quell’appello alla moratoria, per il quale tanto lottammo, è l’unica proposta pragmatica, concreta, umana e civile che si possa avanzare in contesti come quello iracheno. Le Nazioni Unite, i Governi e le organizzazioni per i diritti umani se ne fanno forza. Dal 2008 ogni due anni al Palazzo di Vetro di New York è calendarizzato il voto di un nuovo testo di Risoluzione pro-moratoria. Proprio pochi giorni fa, nella notte tra martedì e mercoledì, il Terzo Comitato dell’Assemblea Generale a New York ha votato una nuova bozza con 120 voti a favore, 39 contrari e 24 astenuti. È un buon risultato se pensiamo che nel 2007 i voti a favore furono 104.

Ed è facile la previsione che in vista del passaggio della Risoluzione nella plenaria in dicembre i voti a favore aumentino come solitamente avviene. Tutto questo dimostra come il processo abolizionista sia inarrestabile. La pena di morte è ormai un ferro vecchio del passato dove i colpi di coda come quello trumpiano o iracheno non sono più la regola ma eccezioni giustizialiste mortifere. Nessuno tocchi Caino concepisce allora una nuova frontiera di lotta a difesa dell’inviolabilità della dignità umana. Dopo l’abolizione della pena di morte, noi andiamo verso l’abolizione della pena fino alla morte e soprattutto della morte per pena.