Il processo
Isochimica di Avellino, pena per 4 e 22 assolti: storia di un’attesa di oltre 30 anni

La prima denuncia è datata 1986, il fallimento risale al 1990. L’Isochimica di Avellino ha chiuso i battenti da tempo (era il 1989), ma la bonifica ancora non è completata. E tra indagini e processo sono trascorsi più di dieci anni. Una storia infinita, sia sul piano umano che su quello giudiziario. Di mezzo ci sono decine e decine di operai e le loro famiglie, fra chi è rimasto appeso al destino giudiziario dell’azienda prima e del processo poi, e chi è tragicamente morto a causa dell’amianto. L’ex Isochimica era una di quelle attività industriali che nell’Irpinia del dopo terremoto avrebbe potuto rappresentare un inizio, fu per molti la fine.
In oltre trent’anni le vittime decedute fra gli ex operai dello stabilimento che lavorava le carrozze ferroviarie sono state 33, ma ci sono almeno altri 200 ex operai ammalati conclamati di patologie asbesto correlate. Ieri mattina ex colleghi, le loro famiglie e alcuni abitanti del quartiere hanno atteso dinanzi ai cancelli della ex Isochimica la sentenza dei giudici di Avellino riuniti in camere di consiglio nell’aula bunker di Poggioreale a Napoli. Ad affiancarli i rappresentanti regionale e locale di Legambiente. «Si è scritta una pagina di verità», hanno commentato dopo la notizia del dispositivo della sentenza che ha stabilito quattro condanne e ventidue assoluzioni. Non è un verdetto definitivo. E il fatto che arrivi a così tanti anni dai fatti rende poco giustizia. La sentenza di ieri ha stabilito la condanna a 10 anni di reclusione per due responsabili dell’epoca della sicurezza interna di Isochimica e per due funzionari di Ferrovie dello Stato. Il verdetto è arrivato trentasei anni dopo la prima denuncia presentata dal Wwf che nel 1986 segnalò alla Procura di Avellino lo smaltimento illecito di rifiuti tossici che avveniva all’Isochimica.
Nel 2009 ci fu la denuncia dell’attivista Giovanni Maraia sulla mancata bonifica del sito di Borgo Ferrovia e per le malattie contratte dagli ex operai. Per arrivare a giudizio si impiegarono anni. Il processo di primo grado è durato cinque anni e sette mesi, 270 parti civili, 127 udienze celebrate nell’aula bunker di Napoli per mancanza di spazi adeguati a disposizione del Tribunale di Avellino. Al cuore delle accuse, storie di morti e malattie collegate alla prolungata esposizione all’amianto di operai che negli anni Settanta avevano iniziato a lavorare nel grande stabilimento irpino inconsapevoli dei rischi per la salute connessi all’amianto inalato nel processo di scoibentazione delle carrozze ferroviarie. Il quadro accusatorio portato a giudizio sulla scorta di un’enorme mole di consulente e relazioni di esperti ha retto in parte: su ventisei imputati, ventidue sono stati assolti.
Di questa storia giudiziaria e umana colpisce soprattutto il tempo e l’attesa di risposte ancora non può dirsi finita. Perché un verdetto che prevede in questa proporzione condanne e assoluzioni lascia aperti ancora un po’ di interrogativi. E siamo alla fine del processo di primo grado. Il 15 giugno del 2016 in sede di udienza preliminare, il procuratore Rosario Cantelmo, che avviò l’inchiesta e oggi è in pensione, si rivolse al giudice Fabrizio Ciccone con queste parole: «La invidio, signor giudice, perchè dopo 25 anni lei sarà il primo a dare una risposta di giustizia ai lavoratori Isochimica». Il giudice fu colui che firmò i rinvii a giudizio. Da allora sono trascorsi sei anni. Un primo verdetto ora c’è, ma non c’è ancora tutta la verità.
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