«In Israele non c’è solo Netanyahu, come nel mondo palestinese non c’è solo Hamas. Capire questo Paese è complesso, ma per gli italiani dovrebbe essere più semplice. Per mentalità politica, struttura parlamentare, siamo fratelli. O perlomeno cugini». Sergio Della Pergola, professore emerito all’Università di Gerusalemme, è un’istituzione nell’osservare le evoluzioni demografiche, culturali e politiche della società israeliana.

Professore, si parla di voto anticipato a ottobre. È vero?

«Israele è un Paese polarizzato. Il governo Netanyahu vantava una solida maggioranza collassata in pochissimo tempo».

Com’è la situazione alla Knesset?

«Dei 68 seggi sui 120 totali, a inizio della legislatura, nel 2022, a favore del governo ne sono rimasti 44».

È possibile una crisi di governo?

«No, finché nessuno pone la fiducia. Su questo punto, Israele e Italia sono simili. La differenza sta nella prerogativa del Presidente della Repubblica che, in Italia, può sciogliere le Camere, qui no. Solo il voto o la Knesset possono risolvere una crisi».

Quindi Netanyahu ha vita politica garantita fino alla fine naturale della legislatura, cioè a novembre 2026.

«No, perché nessuno preme per il voto, in quanto nessuno vuole perdere».

In che senso? Cosa dicono i sondaggi?

«Naftali Bennett, già premier per poco più di un anno nel 2021-22, in questo momento, è la sola alternativa a Netanyahu».

Cosa potrebbe causare le elezioni anticipate?

«Sulla carta, la bocciatura della Legge di Bilancio, da votare entro la fine di marzo prossimo. Quest’anno qualcuno sperava che Netanyahu cadesse nella trappola; invece, con abili passaggi di risorse da un ministero all’altro, il Bilancio è passato».

Salvataggio last minute che non ha risolto le tensioni interne al governo.

«La più significativa riguarda il servizio militare che dovrebbe diventare obbligatorio anche per i ragazzi ultraortodossi. I partiti religiosi hanno presentato un ultimatum: se la legge sull’esenzione del servizio militare non passa in autunno, loro lasciano il governo. Quei ragazzi che devono studiare la Bibbia, dicono. Mentre gli altri vanno a combattere e a morire».

Eppure il premier si sente forte.

«Al punto da aver detto che il voto in questo momento non è importante. C’è chi teme che abbia intenzione di prolungare il mandato oltre la scadenza della legislatura».

La guerra come giustificazione per la sopravvivenza personale. Ma come potrà andare avanti?

«Abbiamo di fronte un nemico radicale, che non vuole compromessi e si è macchiato di atrocità. Israele ha reagito con violenza. Ma non bisogna dimenticare che il piano originario di Hamas è distruggere Israele».

Tutto ruota intorno agli ostaggi.

«L’opinione pubblica è netta: circa il 70% degli israeliani ritiene che la priorità sia la liberazione degli ostaggi. Solo una minoranza pensa che prima si debba distruggere Hamas e poi occuparsi dei prigionieri. Questo significa che il governo non ha un mandato popolare pieno per continuare la guerra».

In Europa si accusa Israele di Apartheid.

«È uno slogan vergognoso, che non tiene conto né dell’assenza di una legge in tal senso, né della realtà dei fatti. La percentuale di laureati e professionisti in seno alla comunità araba è aumentata vertiginosamente. Arabi ed ebrei sono presenti fianco a fianco nel mondo accademico, nelle attività commerciali, nel sistema sanitario. Il presidente del tribunale distrettuale di Be’er Sheva è arabo, Nasser Abu-Taha. Nel 2022 Khaled Kabub è stato il primo musulmano a essere eletto giudice nella Corte Suprema israeliana».

Cos’è che non va allora?

«Non vanno le differenze che nascono quando qualcuno – un politico, un’ideologia – lavora sul lato peggiore degli istinti umani. Il messaggio, a quel punto, si semplifica e diventa: “La legge è uguale per tutti, ma intanto…”. Vale ovunque. Tra bianchi e neri negli Stati Uniti, per esempio».

Un’ultima riflessione sui coloni, professore.

«Anche qui c’è da ricorrere alla storia. Dopo la guerra dei sei giorni, l’idea prevalente era che avessimo risolto un problema. C’era l’illusione che, appena i Paesi arabi avessero riconosciuto Israele, si sarebbe potuto firmare un trattato di pace e restituire i territori conquistati. Poi però sono emerse altre visioni. Figure religiose, o fortemente nazionaliste, hanno cominciato a dire: “No, quei territori sono nostri”. Oggi i coloni vivono in villaggi strutturati, comunità vere e proprie. Alcuni sarebbero pronti a lasciare. Altri non vogliono saperne. “In nessun modo, a nessuna condizione”, dicono. C’è una minoranza politica che li convince che questa sia la scelta giusta. Non è così».