C’era l’Italia degli Olivetti, dei Berlusconi, dei Ferrero, degli Armani. C’era l’Italia che con uno spirito imprenditoriale unico aveva fatto nascere mode, aveva creato imperi economici in ogni settore, era stata esempio per aziende di ogni parte del mondo. C’era l’Italia guidata da idee e da una forza unica, che aveva anticipato la tanto nominata resilienza di questi anni. C’era. Ma non ci sarà più.

Tra i dati più sorprendenti dell’ultimo rapporto Istat sullo Stato del Paese, uno mi ha colpito: le imprese guidate da under 35 (quindi giovani sì, ma non tutti giovanissimi) sono l’11 per cento del totale delle imprese. E in meno dell’1 per cento c’è una condizione paritaria tra under 35 e persone più mature. Se poi andiamo a eliminare dal conteggio le imprese formate da massimo due dipendenti allora le aziende a guida giovane si possono contare sulle dita di una mano, e forse rimane pure spazio per altro.

Dal 2011 sono scomparse quasi 200mila imprese giovanili: scomparse, mai rimpiazzate, come Facci dai palinsesti RAI. Vero, nel tempo anche la popolazione è invecchiata e dal picco di nascite del 2008 siamo arrivati al dato più basso nel 2022. Ma le due curve non vanno in parallelo: la popolazione cala, ma le imprese giovanili calano di più.

Quali sono le cause di un declino che sembra inarrestabile e irrefrenabile?
Partiamo dal passato recente. Gli ultimi tre anni hanno messo a dura prova anche imprenditori ben più navigati ed esperti. Guerra, inflazione, pandemia, costi energetici e di trasporto alle stelle, costo del denaro, settori in crisi: ostacoli che hanno sorpreso aziende solide, figuriamoci un giovane che – pur armato del miglior spirito – si affaccia al mondo imprenditoriale.

C’è poi un tema culturale legato alla difficoltà di un ricambio generazionale nelle imprese familiari, ad oggi la maggioranza in Italia. Ci sono esempi virtuosi in cui le nuove generazioni hanno preso le redini di aziende nate dai loro padri o dai loro nonni, ma anche tanti casi in cui l’imprenditore originario fatica a lasciare spazio ai figli o ai nipoti. È un tema culturale, non c’è nessuno scontro generazionale in essere (almeno qua).

Come per altri dati, emerge poi un Paese spaccato a metà: il numero cala quasi ovunque (fanno infatti eccezione cinque province che in dieci anni hanno aumentato il numero di imprese giovanili), ma al Sud cala di più. Non perché al Sud nascano meno imprenditori, ma perché al Sud il Paese sta invecchiando più rapidamente, le opportunità formative sono diverse, ed è più alto il tasso di ragazzi che emigrano, al Nord o all’estero, per non fare più ritorno a casa.

Infine c’è un tema che blocca in Italia l’imprenditoria giovanile ma anche qualsiasi iniziativa, dal PNRR alla sagra della salamella dell’oratorio dietro casa (spesso peraltro organizzata e gestita meglio del PNRR stesso): la burocrazia. Per curiosità ho provato a cercare quali incentivi ci siano oggi per un ragazzo che abbia voglia di diventare imprenditore. Gli incentivi sono una cosa davvero positiva, sia chiaro: spingono chi ha davvero voglia a lanciarsi e prendersi dei rischi, accompagnano un’impresa nei primi passi che spesso sono fatti solo di costi, danno serenità permettendo di concentrarsi di più sull’idea imprenditoriale di base, stimolano l’innovazione e permettono la crescita del sistema Paese.
Basta aprire Google e cercare «incentivi per giovani imprenditori» per entrare in un girone dantesco fatto di enti, bandi, cavilli, documenti da presentare in forma cartacea o via fax (sfido chiunque a trovare un under 35 che abbia mai usato il fax), programmi di sviluppo nati con le migliori intenzioni ma sommersi da burocrazia inutile. Sicuro che non tutti i fondi sono stati poi effettivamente assegnati negli ultimi anni ho provato a cercare dati certi, ma all’ennesimo rinvio anche per questa informazione a siti e apparati parastatali ho lasciato perdere.

L’impatto di un trend così costante è drammatico: non stiamo parlando solo di un calo di aziende a guida giovane, ma stiamo parlando di un calo di innovazione, di un mancato ricambio naturale e fisiologico tra nuove imprese e aziende fuori mercato, di una formazione da rivedere soprattutto per gli ultimi anni degli istituti superiori e quelli universitari. Stiamo parlando di una scarsa attrattività del nostro Paese per chi, oggi, vuole fare l’imprenditore.

C’è chi, fuori dai nostri confini, negli ultimi anni ha registrato una tendenza crescente: gli USA, che negli ultimi anni hanno visto crescere il numero di aziende a guida giovane di quasi due milioni. Al netto di cosa ha favorito questa crescita (ad esempio un sistema di aiuti meno burocratico), vorrei sottolinearne gli effetti.

I giovani imprenditori americani sono nati con internet e le nuove tecnologie, e le applicano in maniera naturale per rivoluzionare interi settori (dice niente AirBnb?). E, si badi bene, l’impatto non è solo su un settore, ma a cascata su tutto il sistema economico del Paese – che cresce più velocemente – sta al passo di altri Paesi, ottiene vantaggi competitivi che altri Paesi non avranno, gemma nuove realtà imprenditoriali, evolve il modello formativo…

I nuovi imprenditori nascono, perlopiù, in un contesto diverso dagli anni ‘50: difficoltà economiche, scarso accesso ai capitali, finanza complessa… Questo porta le nuove generazioni ad essere pronta ad affidarsi, senza gelosie e chiusure, a incubatori, fondi non speculativi, aziende e mentor, che in USA formano un sistema aperto e di facile accesso. In Italia, nel frattempo, ancora litighiamo per le job title.
Insomma, ci sono spazi per rendere l’Italia un paese attrattivo per i nostri giovani. Semplificare l’accesso al capitale, valorizzare incubatori e realtà che già esistono e danno supporto a nuovi imprenditori, accelerare sullo sviluppo tecnologico, creare poli e distretti imprenditoriali dove giovani lavoratori e  studenti possano collaborare.

Ci sono tanti spazi per far sì che anche in Italia, come negli USA, si affacci una nuova generazione di imprenditori: la Generazione Z.
E per disegnare, insieme a loro, un Paese diverso. E magari con meno burocrazia.