È come se l’avessimo visto tutti, Karim Bamba, dieci anni, papà ivoriano, mamma palermitana, a Boltiere, provincia bergamasca, arrampicato su quel mucchio di stracci, mentre cerca di intrufolarsi nel cassonetto giallo della Caritas accanto alla Statale, per recuperare qualche regalo piovuto dal cielo: una maglietta usata col numero di gioco cucito sulle spalle o chissà magari addirittura un paio di scarpe da ginnastica della Adidas. Lo sportello tagliente, concepito apposta per evitare gli scassi, si è implacabilmente chiuso martedì sera su di lui come una terribile morsa uccidendolo. Era riuscito a sfuggire al Covid 19 in una delle regioni italiane più colpite dall’epidemia, restando chiuso per mesi dentro uno scantinato insieme ai quattro fratelli e sorelle, nell’indigenza più vera, quella che neppure i grafici delle statistiche possono cogliere; gli è stata fatale l’intraprendenza della sua giovane età. La stessa energia che in quella fase della vita ti fa superare tutti gli ostacoli a punteggio pieno, gli ha negato il futuro.

Come non pensare, anche per collocare nella dimensione universale dell’adolescenza perenne, che torna con grandi folate ad ogni generazione, al Lazarillo de Tormes, romanzo cinquecentesco spagnolo d’autore ignoto, ma non certo improvvisato, appena riedito da Adelphi, a cura di Francisco Rico, nella nuova traduzione di Angelo Valastro Canale? Alla base della civiltà narrativa moderna sta, fulgido e senza rivali, proprio questo libro: la storia di un povero accattone figlio di un mugnaio che, partito per la guerra e mai più ritornato, lascia il bambino da solo con la madre la quale, non sapendo in quale modo mantenerlo, appena grandicello lo affida a un cieco bisognoso di guida.

Iniziano così le avventure del piccolo randagio che s’addestra al «mestiere di vivere», come scrive lui stesso quando, ormai adulto, rivolto a un imprecisato Vostro Signore, decide di svuotare il sacco. Cesare Pavese, scegliendo questo titolo per il suo diario, saprà cogliere, nella nota del 23 novembre 1937, insieme alla propria impotenza, lo spirito più autentico dell’orfano costretto, dopo essere caduto a terra, a rialzarsi in piedi e riprendere il cammino: «L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante. quando manca questo senso – prigione, malattia, abitudine, stupidità -, si vorrebbe morire».

Oggi l’Europa è piena di Lazarilli multicolori che vengono dall’Africa e dall’Asia, minorenni non accompagnati, pronti a scoprire, fuori e dentro se stessi, le medesime risorse a cui attinse l’indimenticabile vagabondo in giro per le strade di Salamanca: prima al servizio di un prete che non esita a lesinargli il cibo, quindi sotto la direzione di uno scudiero se possibile ancora meno avveduto, poi al seguito di un frate della Mercede, di un venditore d’indulgenze, di un cappellano e infine di un banditore di vini. Lazarillo, per placare i morsi della fame, deve fare di necessità virtù, dunque diventa esperto di comici stratagemmi tesi a rosicchiare i pezzi di pane che i suoi padroni gelosamente nascondono insieme a qualche crosta di formaggio. Fra gli episodi più famosi (ricavati dai fabliaux, divertenti racconti lirici d’origine medievale, talvolta con linguaggio scurrile, diffusi nelle corti dai trovieri), possiamo ricordare quello della chiave della stanza delle provviste tenuta in bocca dal ragazzo durante la notte e poi scoperta dal proprietario con dolorose e tuttavia esilaranti conseguenze.

Dobbiamo considerare che prima di questo testo c’erano soltanto i romanzi cavallereschi d’impronta aristocratica. Qui invece troviamo uno sguardo realistico inaspettato: gli ambienti rustici delle case che emergono potenti fra le pagine come fondali di teatro, il vicinato chiassoso e popolare con le anziane tessitrici pronte a prendersi cura del ragazzo nel momento del bisogno, le ricette di cucina, i giochi di cortile, i mestieri perduti, come i venditori d’acqua e i pittori di tamburello, le pietanze, gli usi e i costumi della società del tempo.

Lazarillo alla fine metterà giudizio e diventerà adulto, nella prefigurazione del bravo ragazzo che avrà in Pinocchio uno dei modelli maggiori, si sposerà con una domestica, troverà persino una certa tranquillità economica, ma nella percezione dei suoi tanti lettori futuri resterà sempre l’adolescente astuto e intraprendente capace di sopravvivere in mezzo alle quotidiane difficoltà della vita, fino al punto di trasformarsi nella prima maschera universale del romanzo picaresco e forse ancora di più: il fantastico padre spirituale di Cervantes e De Foe, in grado di formare la coscienza occidentale e sempre pronto a riaffacciarsi nella nostra immaginazione. Ecco perché oggi, in un cantuccio vicino alla tomba del povero Karim, insieme a quelli che gli volevano bene, come un compagno segreto chiamato a rendergli omaggio, starà piangendo anche il poverello spagnolo.