Ci vorrebbe proprio una fase costituente che realizzi un ripensamento complessivo sulle istituzioni, sulla società, sull’economia, sul lavoro e sulla cultura del paese, in una dimensione e in una logica europea. E questo dovrebbe essere il compito di una forza riformista europea.

Con la caduta del Muro di Berlino, senza spargimento di sangue (grazie a Gorbacëv), bisognava cercare un nuovo sistema di relazioni per un nuovo equilibrio mondiale: erano finite la “cortina di ferro” e la Guerra Fredda con la vittoria degli Usa e del capitalismo, nella sua espressione più liberista, ma questo poteva tradursi in una visione unilaterale del mondo, senza tenere conto dei nuovi paesi emergenti (Cina e India in primis). E il paese che era più esposto alle tensioni della contrapposizione ideologica ed economica tra Ovest ed Est, e dei conflitti tra Nord e Sud, è saltato per aria da un combinato disposto di pressioni interne ed esterne che hanno rotto quell’equilibrio che reggeva la convivenza civile, culturale, ideologica e politica.

Nessuno ha voluto prendere atto che quel sistema richiedeva un nuovo patto di cittadinanza, che prendesse atto della fine della Guerra Fredda e della fine delle ragioni della rottura in due tronconi del movimento operaio italiano e della “conventio ad excludendum”. Invece di proseguire il cammino del PCI verso la socialdemocrazia, si è andati verso un pastrocchio informe di movimentismo, di dissenso cattolico e di radicalismo (estremistico e ambientalista) in contrapposizione con tutti gli altri partiti. Finché gli effetti dei referendum per scardinare il sistema proporzionale (e rimettere in circolo anche la destra estrema) e la distruzione dei partiti post-fascismo con “Mani Pulite” hanno portato a quella “Seconda Repubblica” in cui l’equilibrio dei poteri di uno Stato di diritto erano sovvertiti. E non vi era alcuna seria riflessione culturale, ideale, valoriale alla base della costituzione di nuove formazioni politiche.

Così abbiamo avuto la gioiosa macchina da guerra ed è arrivato un Cavaliere. E che Cavaliere! E intanto – con lo sfondo delle inchieste giudiziarie che mettevano in un angolo la politica e i partiti – si è giunti alla spogliazione dei settori economici dello Stato e alla svendita di aziende, banche, servizi. Vi ricordate il “Britannia” 2 giugno 1992? L’incontro dei finanzieri della City con esponenti del governo, delle aziende pubbliche, il direttore generale del Tesoro Draghi. Da lì al referendum (18 aprile 1993, con il clima di Tangentopoli, ecco il 90% dei consensi allo scioglimento del ministero delle Partecipazione statali), e insieme c’era anche quello per introdurre il maggioritario al Senato. E subito dopo, il 30 giugno 1993, prendono il via le privatizzazioni per Stet, Credit, Comit, Banco di Roma, Ina e la trasformazione in società per azioni di Enel, Eni, con la messa sul mercato azionario di parte del capitale. Poi i governi di centrosinistra completeranno con Telecom, Autostrade per l’Italia, Autogrill.

Chissà perché – nonostante l’esito positivo delle consultazioni – non vennero sciolti i ministeri dell’Agricoltura, del Turismo e dello Spettacolo. Né venne privatizzata la Rai dopo il referendum del 1995, ma quello è territorio di appartenenza del generone romano: non si tocca. E non si tocca quando ormai i vecchi partiti erano scomparsi e la politica era messa in ginocchio, e addirittura si proclamava fuori lo Stato dagli enti lirici. E se oggi non ci fossero i soldi pubblici, nessun ente – compresa la Scala – starebbe in piedi.

La politica è debole

Come è noto, dove la politica è debole – e sono deboli le istituzioni in cui si esprimono compiutamente le rappresentanze politiche dei cittadini – emergono altri poteri o caste di funzionari dello Stato che, in combutta con il potere mediatico, soppiantano la “democrazia rappresentativa”. In politica non esiste il vuoto, né il vuoto per pieno: c’è sempre qualcuno che occupa lo spazio lasciato libero. E tanto più le istituzioni della democrazia rappresentativa sono deboli, ecco che si affermano altri poteri, compresi quelli di funzionari dello Stato e di forze economiche dominanti (e non dirigenti). D’altra parte il generone romano non è mai stato scalfito da “Mani Pulite”. Il male stava tutto a Milano, patria di Craxi, mentre a Roma proliferava un organismo monocellulare, che ingloba destra, sinistra, centro: un’ameba mangia-cervello, un nemico subdolo che cresce nelle temperature miti favorite dal ponentino, che si sviluppa nei salotti e nelle terrazze romane e che pervade politica, economia, affari, Curia romana, istituzioni democratiche, cultura, enti, aziende pubbliche, livelli elevati dell’apparato dello Stato.

In quell’ambiente mefitico appaiono lontane le periferie, il disagio, l’insicurezza sociale e fisica, le esigenze delle forze produttive, delle masse lavoratrici, dei piccoli, medi e medio-grandi imprenditori; gli immigrati irregolari non bivaccano in via Condotti. Come lontana appare l’Europa: l’importante è che non si scalfisca il centralismo statale, poiché esso è strumento e compagno di una gestione del Mezzogiorno clientelare e assistenziale, utile a mantenere il potere romano. Da Roma, il Nord appare un’entità lontana, fastidiosa, petulante, anche nelle sue richieste di decentramento, di autogoverno, di produttività, di efficienza. “La colpa, caro Bruto, non è nelle nostre stelle, ma in noi stessi”. “Buonanotte, e buona fortuna”.