«La vita non è aspettare che passi la tempesta ma imparare a ballare sotto la pioggia»: risuonano senza essere pronunciate le parole della celebre massima di Ghandi nella scena centrale de La dea Fortuna, tredicesimo lungometraggio firmato da Ferzan Ozpetek. Una favola tragica ma piena di speranza, coraggio, passione, capaci di uscire fuori e salvare il salvabile nel momento dello spasimo, in cui tutto sembra perduto, anche e soprattutto il futuro.

I bambini che rischiano di soffocare, chiusi in un armadio da una nonna mai stata davvero madre, (interpretata sorprendentemente dalla scrittrice Barbara Alberti), diventano lo sguardo all’orizzonte, sul mare che lega al continente la bellissima quanto tetra Villa Valguarnera di Bagheria, già narrata da Dacia Maraini, e una Roma matrigna e complice, popolana e cosmopolita, folle; affrescata fra le trame delle vite di immigrati, smemorati e travestiti affratellati dai loro destini decadenti come i palazzoni nei quali vivono tra centro e periferia est, quella Tiburtina così cara a Pasolini. La scrittura di Ozpetek e Gianni Romoli, anche sceneggiatori oltre che, rispettivamente, regista e coproduttore del film, riesce al meglio quando le loro penne si incrociano sulla scia delle pellicole colorate d’arcobaleno che riconducono per osmosi poetica all’indimenticabile 2001 de Le Fate Ignoranti con un Accorsi più giovane di quasi vent’anni, epoca in cui dichiararsi gay e sfilare al Pride erano davvero motivi di orgoglio.

Ne La dea fortuna, invece, affiorano dubbi, paure, ricerca di un’essenza vittima della quotidianità. La storia d’amore tra Arturo (Stefano Accorsi), letterato, traduttore, mancato prof universitario e Alessandro (Edoardo Leo), passionale e pragmatico idraulico, consumata dai quindici anni trascorsi insieme e apparentemente al centro del film, diventa in realtà solo il tappeto di un’opera che riflette su due tra i più grandi dilemmi che attanagliano la società moderna e, in essa, particolarmente la comunità lgbt: normalizzarsi, quindi diventare famiglie diversamente neoborghesi oppure continuare ad essere favolosi e trasgressivi, normalizzando la “coppia aperta” e rendendo i bambini testimoni oculari di quella strana favola chiamata libertà?

La dea Fortuna offre risposte. Come Iside, sa far rinascere. È vita che genera vita. È morte che accomuna chi sopravvive nell’anelito di un futuro necessario, da leggere negli occhi dell’amore e ritrovare in particolare in quelli dei più piccoli. Creature da preservare ma non isolare dal mondo reale, perché nella reggia fatata le streghe cattive sono sempre in agguato. Il pubblico si commuove con la “luna diamante” di Mina, si scambia carezze flautate sulle dolcissime voci dei piccoli youtuber Isaac e Nora che intonano il melanconico bolero cubano “Veinte anos” a soli 11 e 8 anni, le stesse età dei due piccoli protagonisti Sara Ciocca (Martina) e Edoardo Brandi, il maschietto che sarà omonimo di Leo anche nel nome di scena: Alessandro.

La dea Fortuna è una superba Jasmine Trinca (Annamaria), madre single, capace di una introspezione e di un’empatia che richiamano alla mente la memorabile interpretazione di Giovanna Mezzogiorno ne La finestra di fronte, altro capolavoro firmato Ozpetek. Sarà proprio Annamaria, ex di Alessandro (Edoardo Leo) che tra le rovine del tempio della Fortuna Primigenia a Palestrina, con un suo passo indietro, favorirà l’incontro tra i due ragazzi. Tutto il resto è amore, anche senza sesso e baci, anzi pieno dei mille tormenti che portano il film alla catarsi finale tra le acque del Mediterraneo e le magnifiche sinestesie musicali di Diodato sulla vita “meravigliosa, dolorosa, seducente, miracolosa” che sa spingere in mezzo al mare, far piangere e ballare. Evidentemente anche sotto la pioggia.