Un tema spinoso, ma tuttavia ricorrente quando si parla di politica italiana, è il tema del finanziamento pubblico alla politica. Esso ha avuto una storia travagliata, fatta di luci ed ombre, che risalgono alla prima legge (Legge Piccoli) del 1974 che istituiva il finanziamento ai partiti tramite i gruppi parlamentari e ai rimborsi delle spese elettorali. Un’importante potenza di fuoco messa a disposizione della politica per dare solidità alle sue strutture e renderle capillari, capaci di agire sulla massa e con i migliori mezzi a disposizione, dando inoltre la possibilità anche a chi non era necessariamente troppo abbiente di poter sostenere una campagna elettorale, all’epoca anche molto più dispendiosa per l’assenza del digitale e per la corsa alle preferenze.

L’oggettiva involuzione di un pezzo importante della nostra classe politica, i casi di corruzione che crescevano, e le battaglie contro la casta che iniziavano a imperversare concludendosi poi con gli scandali di tangentopoli hanno decretato prima l’abolizione per via referendaria dei finanziamenti ai partiti tramite i gruppi parlamentari nel 1993, riemersi in maniera carsica come rimborsi elettorali , ridotti e ristretti dal Governo Monti e infine cancellati sull’onda del populismo anticasta grillino dal Governo Letta nel 2013. Di questa breve e infausta storia di questo istituto si possono dire varie cose: la politica dopo un primo tempo in cui ha usato bene quelle risorse, ha dimostrato ahinoi di non avere senso della misura , abusandone, ma poi, quando ridotti all’osso, gli stessi esponenti di una classe politica indebolita non hanno avuto il coraggio di ammettere che la politica necessitava di sempre nuove e maggiori risorse , per poter far stare in piedi dei partiti di massa nell’era dei mass media e consentirgli di svolgere la loro funzione.

Personalmente credo che in Italia il finanziamento pubblico alla politica, in dimensioni più massicce, ma sicuramente più controllato e con un regime rigido di rendicontazione, andrebbe reintrodotto per poter dare gli strumenti ai partiti che, liberi da una totale dipendenza dai grandi finanziatori privati , potrebbero essere capaci di consentire veramente alla politica di arrivare a chiunque e permettere a tutti di farla, e non solo a chi ha 10.000 o 20.000 euro da spendere per diventare deputato , consigliere regionale ecc.

 

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Ma al netto della mia posizione, contrari o favorevoli dovrebbero registrare un fatto oggettivo: dinanzi alla reticenza nei confronti del finanziamento pubblico, il legislatore e la politica tutta non hanno voluto trovare una soluzione, prima culturale che tecnica, per aprirsi a un nuovo modello che garantisse di avere comunque risorse e mezzi necessari per essere presenti nella società, e non solo fungere da meri comitati elettorali estemporanei, scevri dai grandi interessi organizzati pronti a finanziare tizio o caio, affinché i finanziamenti di quest’ultimi rappresentassero un aspetto complementare, non totalizzante del finanziamento dei partiti in Italia.

Ho riflettuto su questo aspetto dopo che mi è capitato sott’occhio, scrollando il mio feed di Instagram, un video di Barack Obama che ha iniziato a scendere in campo per la riconferma di Biden. Nulla di strano, tutto come da programma, se non che mi ha colpito e meravigliato ancora una volta di più come la politica americana non si vergogni affatto nel dire ai propri cittadini che i partiti e le organizzazioni politiche hanno bisogno di denaro per poter funzionare.

Ascoltando quelle parole ho immaginato a come in Italia genererebbe sdegno una pubblicità in cui Elly Schlein o Giorgia Meloni chiedessero di donare direttamente con un SMS al loro partito 2-5-10 euro perché “La politica ha bisogno di risorse”: e in effetti non accade, nessuno si sogna di far pubblicità del genere, in un Paese che è forse ancora troppo intriso da quel sentire comune di matrice culturale cristiana per cui “Il denaro è lo sterco del demonio”, e del quale quindi se ce l’hai o lo chiedi , in fondo te ne devi sempre un po’ vergognare, figuriamoci per una cosa squalificata come il fare politica.

Fatto sta che gli USA, che non sono l’Italia, nel corso dei decenni hanno costruito un sistema e soprattutto un modello culturale per cui le piccole donazioni dei singoli cittadini rappresentano una parte preponderante del finanziamento alla politica e attraverso le quali costruisci un vincolo, un impegno alla partecipazione da parte dei cittadini alla politica. Aver valorizzato l’aspetto della donazione, ha portato nel tempo a dare valore alla politica, perché in fondo siamo fatti così noi uomini: quando paghiamo una cosa gli diamo un valore e al contempo chiediamo riscontro di quanto “investito”, viceversa la trattiamo come qualsiasi oggetto trovato per strada. Le grandi strutture partitiche americane, che fungono da federatori di galassie civiche, sociali e di base, hanno quindi strutturato un pezzo significativo della loro organizzazione e comunicazione dedicandolo proprio al fundraising: al confronto quello che si fa in Italia con il 2×1000 son briciole e pochissimi partiti in Italia hanno vere strutture dedicate.

Ma la cosa più importante, che poi fa la differenza nelle società moderne di oggi, è che da una necessità gli americani ne hanno ricavato l’opportunità di creare un vincolo partecipativo con i donatori: coinvolti nelle piccole scelte, sempre aggiornati, trattati come persone che danno un valore, non solo economico ma anche umano alla politica. Sarà un caso ma gli USA, nonostante le loro mille contraddizioni, è da 20 anni che sono l’unica democrazia occidentale nella quale l’affluenza al voto è cresciuta.
E se provassimo a toglierci i paraocchi che abbiamo addosso da diversi decenni in Italia e, se non si vuole ritornare al finanziamento pubblico, perché non abbracciamo come sistema politico, ma anche mediatico e dell’informazione, le opportunità date dal finanziamento diffuso alla politica? Solo come sistema Paese riusciremo ad accogliere questa occasione come si deve, perché solo con un ecosistema economico e culturale predisposto potremo far sì che dire che la politica, e quindi la democrazia, hanno un costo, non sia più una frase vista come assurda e per la quale sentirci in imbarazzo.

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Nato nel 1995, vivo a Trieste, laureato in Cooperazione internazionale. Consulente per le relazioni pubbliche e istituzionali, ho una tessera di partito in tasca da 11 anni. Faccio incontrare le persone e accadere le cose, vorrei lasciare il mondo meglio di come l'ho trovato. Appassionato di democrazia e istituzioni, di viaggi, musica indie e Spagna