Tanti anni fa, passeggiando sulle rive del Neckar, a Tubinga, diretto verso la torre del falegname Zimmer, dove Friedrich Hölderlin, poeta cardine dell’Europa stravolta e restaurata da Napoleone Bonaparte, visse metà della sua esistenza, dal 1807 al 1843, ebbi l’impressione di comprendere tutta la possibile atrofia del sentimento romantico: se fissi troppo a lungo il paesaggio lì intorno, potresti rischiare di veder mutare la visione di quelle placide acque e dei fiori lussureggianti cresciuti sugli argini in una specie di incubo. È il soggettivismo isterico di Fichte. La tempesta tragica di Schiller. Per fortuna una famigliola turca in allegra gita domenicale sulla ciclabile nei pressi del fiume mi riportò presto ai limiti imposti dalla realtà.

Sul tempo recluso e leggendario che l’autore di Iperione e La morte di Empedocle trascorse nell’oscurità della sua mente alterata, Giorgio Agamben ha pubblicato un libro in tanti versi eccentrico e sorprendente: La follia di Hölderlin (pp. 241, Einaudi, 20 euro) con un sottotitolo volutamente allusivo: Cronaca di una vita abitante. Interpretando quest’ultimo nel senso di uno squilibrio da abitare, entriamo nel merito della questione. Che non può ridursi a un fatto clinico. Il poeta, se non vogliamo accettare il referto dell’autopsia del professor Gmelin, relativo a una anomala pressione cerebrale, è stato dentro la schizofrenia, o come vogliamo definire la sua condizione, con tutto se stesso: cuore e ragione, corpo e spirito.

I nomignoli usati per firmare le ultime stupefacenti composizioni, Buarroti (Buonarroti), Rosetti, Salvator Rosa, ma soprattutto Scardanelli, dovrebbero attestarlo: “Di questo mondo il piacevole ho gustato, / Di giovinezza il tempo – da tempo è ormai passato. / Aprile, maggio e luglio son lontani, / Più nulla io sono e i miei giorni vani!” (cito da Tutte le liriche comprese nel Meridiano Mondadori del 2001 tradotto da Luigi Reitani). Queste filastrocche pronunciate sull’orlo del baratro non erano la conseguenza di sdoppiamenti, bensì l’esito di una nuova molteplice identità. Ne deriva, nel superamento delle categorie della tragedia e della commedia, l’incarnazione di «un semplice, quotidiano trito dimorare, una forma di vita anonima e impersonale, che parla e fa gesti, ma alla quale non è possibile imputare azioni e discorsi». Una sconfitta, suggerisce Agamben, in grado di «destituire integralmente il successo della vita di Goethe», di fatto togliendogli ogni legittimità. Il lato oscuro del mondo olimpico.

Le radici del male venivano da lontano: «Essere uniti è buono e divino; perché allora la brama / Tra gli uomini, che uno solo sia e una cosa sola?» scriveva Friedrich Hölderlin nel Libro in folio di Stoccarda che risale ai primi anni del diciannovesimo secolo. Dove troviamo espresso in un solo sintagma lirico il dramma radicale dell’individualismo come salvezza personale che gli scrittori novecenteschi cercheranno vanamente di addolcire trasformandolo in uno scacco esistenziale, nel tentativo di renderlo persino affascinante. Hölderlin non ebbe mai tale illusione. Stiamo parlando della caduta delle ombre che spezzano il giorno insieme alla nostra alacrità attivistica: “Vieni, ora, riposo soave! troppo desidera / il cuore; ma infine ti spegnerai, giovinezza!” (Fantasia della sera, 1800, considerata da Nietzsche una perla poetica), non distante, come sappiamo, dalla “fatal quiete” che, nelle ore del tramonto, solo due anni dopo smorzerà lo “spirto guerrier” di Ugo Foscolo.

Il lavoro di Agamben, strutturato alla maniera di una folta raccolta di vivide testimonianze da parte di amici e visitatori, capaci di parlare da sole, anche nel rapporto con le tavole dell’atlante storico, ci aiuta a intuire, se non comprendere, la natura del consapevole occultamento operato dal poeta. Decisive appaiono, in particolare, le lettere, formali e agghiaccianti, della madre assente, pronta, fin quando visse, a pagare la retta necessaria al falegname per mantenere il figlio che tuttavia non andò mai a trovare.

E così il lettore può seguire l’avventura del giovane genio, a partire dal tempo in cui, tornando a piedi da Bordeaux, dove faceva il precettore, si presentò lacero e confuso a Francoforte coi segni evidenti di una crisi psichica devastante, dopo aver saputo della morte dell’amata Suzette, da lui chiamata Diotima, la mitica fanciulla greca, alla quale dedicò versi immortali: “Luce d’amore! anche ai morti rifulge il tuo oro!… / Diotima! intorno a noi intimamente uniti, per sempre…”. Da quel momento in poi si creò una cesura: trentasei anni di presunta dissennatezza successero a trentasei anni di apparente sanità. Ma forse dentro la mela lucida e colorata cresceva invece lo scorpione. E dietro lo sfacelo apparentemente ingiustificabile dei comportamenti finali si nascondeva una consapevolezza spettrale. Fra i tanti ritratti del poeta negli ultimi anni prendiamo quello del teologo Albert Diefenbach: «Sulla porta mi venne incontro un’alta, curva, spirituale figura.

Fui sopraffatto dallo sgomento. Lo sguardo fisso e confuso degli occhi incavati, l’alterazione convulsa dei muscoli del viso, lo scuotersi dei riccioli grigi, tutto il suo atteggiamento manifestavano la particolare natura di un pazzo. Con un incomprensibile e poliglotta fiotto di titoli, tra i quali riuscii a capire soltanto ‘Vostra maestrà, Altezza, Santità, Grazia, Signor Padre, gentile signore’ e una dozzina di segni di cortesia e profondi inchini, mi indirizzò da Zimmer».

Hölderlin non finge né scherza, come piuttosto farà l’Enrico IV di Luigi Pirandello. È serio, fino al punto di rendere vana l’antica opposizione fra pubblico e privato, che oggi, nell’era dei social, pare sul punto di crollare: «Anche in questo ci è vicino», sentenzia Agamben nella chiusa vertiginosa, «a noi che della distinzione fra le due sfere non sappiamo più nulla. La sua vita è una profezia di qualcosa che il suo tempo non poteva in alcun modo pensare senza sconfinare nella follia».