La recensione
La gatta, un esempio di leggerezza stilistica: il gioiellino di Tanizaki

Questo delizioso racconto di Jun’ichirō Tanizaki, uno dei grandi maestri della letteratura giapponese del Novecento, “La gatta” (Bompiani, traduzione di Atsuko Ricca Suga), è un esempio della leggerezza stilistica di quel grande scrittore. In Italia Tanizaki è conosciuto soprattutto per “La chiave”, da cui fu tratto il film “osé” con Stefania Sandrelli, e forse per il “Diario di un vecchio pazzo”, ma sarebbe fuorviante considerarlo uno scrittore scabroso. Anzi, alla maniera tipicamente giapponese, Tanizaki è grande per come sa penetrare gli abissi della sensualità con una scrittura semplice e umanissima.
In questo racconto del 1936 la protagonista è Lily, la gatta del titolo, contesa tra un uomo e la moglie che egli ha scacciato e inconsapevole strumento di rivalsa e di scontro tra la prima e la seconda moglie e di vera e propria gelosia tra i coniugi: «Non è vero che tieni più alla gatta che a me?». Lily insomma diventa come una merce di scambio tra le due donne mentre chi fa la figura peggiore è l’uomo, un irresoluto, il vero sconfitto della storia. La gatta forse capisce tutto di quelle debolezze umane, lei che umana non è. O forse proprio grazie alla sua “animalità” che intende l’uomo meglio degli uomini. Un gioiellino.
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