«Mi costringi a notare che se Dio /ha legato con amore in volume / ciò che per l’universo si squaderna / basta strappare i fogli e quel volume / svanisce e son le foglie di Sibilla…». Chi sta parlando, con qualche insofferenza, e a chi si rivolge? Si tratta di Giorgio Manacorda, nel tentativo di dialogare – litigiosamente – con Dante. Il suo recente La materia del paradiso (Elliot) dimostra anzitutto che oggi in poesia si può fare qualsiasi cosa, anche avviare uno scambio impossibile, in forma di poema, con il Sommo Poeta. Manacorda si rivolge a Dante come, nella tradizione ebraica, qualche maestro rabbino si appellava a Dio insieme con devozione e con risentimento, “con amore e con rabbia”. L’umile riconoscimento della grandezza assoluta dell’interlocutore si accompagna a proteste e rimostranze.
Un libro sincero e pieno di intelligenza esperienziale, per molti aspetti spiazzante.
L’autore, rileggendo per intero il Paradiso dantesco, sa di esserne incommensurabilmente distante, sa che il suo unico paradiso è «questa mia / discesa quotidiana verso il buio», ma al tempo stesso sente che quella cantica fa misteriosamente risuonare dentro di lui qualcosa (una promessa? un presagio?). Nei 30 “appunti” (più 4 “epiloghi”), composti da endecasillabi colloquiali non tanto “impropri” come pure qui viene dichiarato, ma di rotonda, artigianale perfezione, e nei quali troviamo incastonati, come altrettante pietre preziose, alcuni versi del Paradiso, scorre una drammatica quête interiore, la ricerca di una “salvezza” laica, impossibile come il poema stesso. L’autore confessa la sua impotenza e desolazione – che è poi quella di noi moderni -, il suo essere “sanza fé” (come Virgilio, ma per Dante più colpevoli poiché noi veniamo dopo Cristo), il suo abitare un universo frammentato e provvisorio, in balia del disordine e del caso. Si dichiara “materialista mistico” (la materia sogna, pensa, si esprime in poesia…), e si intuisce che nella sua biografia ha peccato di idolatria chiedendo alla politica troppo (mentre «la storia ci consuma, lei ci schianta»).
Diffida di molte cose presenti nella terza cantica: dell’enfasi sull’Impero, della approvazione del massacro degli albigesi (gli “sterpi eretici”), di un Dio rappresentato come aquila grifagna o nascosto nella sua luce accecante, di angosce troppo “ripulite” nell’iperuranio, di un eccesso di dottrina, «dell’amore depurato dall’amore», di un «paradiso mentale congelato», di una giustizia divina che per noi resta imperscrutabile… Ma tutto questo ci conduce dentro le aporie di Dante – meravigliosamente contraddittorio – che pure nel Paradiso celebra san Francesco (che si fece “pusillo”), la puttana Raab, Romeo di Villanova esiliato e caduto in rovina, Traiano solo perché un giorno volle ascoltare una vedovella, e Rifeo, un oscuro troiano citato solo una volta nell’Eneide, che si trova lì solo in quanto “giustissimo”. Manacorda attraversa la impalpabile materia del Paradiso in modo ostinato e temerario. A volte la sua “preghiera” nei confronti di Dante è straziante. Molte delle questioni che solleva non trovano risposta, ma d’altra parte la poesia non offre mai soluzioni univoche.
Spesso nella pagina si illumina un distico, sintesi felice – e perciò memorabile – di un giudizio o di un presentimento. Quando definisce Dante «re della rima incantata: un liuto / un’arpa, un pianoforte, la tua testa / era la sala di una grande orchestra». Quando descrive la modernità: «oggi Dio è morto in questo mondo / liquido senza forma, qui non c’è», e poi «Caro Dante, se puoi dimmelo tu: / che cosa è andato storto se Dio è morto?». O anche «in questo amor che morde la tua mente, / un pulviscolo, polvere di niente». Eppure il niente non è l’ultima parola in Dante. Di qui la sua inattualità, La modernità comincia nel ‘500: se per noi «la natura è così: strana e vagante», Shakespeare per primo ha saputo rappresentare questa “stranezza”, e dentro di essa la ingovernabile pazzia umana in un mondo senza trascendenza. L’autore scrive che rileggendo quel “libro infinito” che è la Commedia sta facendo la sua “analisi da vecchio”, e così spera di “guarire”, proprio come Dante, “se guarire è conoscere e sapere”.
Qui tocchiamo un punto delicato. Se Cacciari, incautamente, sostiene che Dante non avrebbe alcun merito particolare che giustifichi il viaggio nell’oltretomba, possiamo solo replicargli che il suo unico merito consiste «nell’aver amato Beatrice» (lo ha sottolineato una interprete dantesca da poco scomparsa, Bianca Maria Garavelli). Nella Materia del paradiso leggiamo che «La madre cura con la sua empatia / che è solo una metafora, poesia. La mia divinità, poiein, è il fare / che solo le donne sanno fare». E ancora che «l’unico scultore della carne, / lo so, è una scultrice». Beatrice tutto spiega: «son le donne, / basta guardarle se si guarda il mondo». Come se all’autore, in quanto maschio, fosse riservata quella modalità del creare che si ritrova nell’arte, nella poesia, nella conoscenza, e che è un nobile surrogato dell’unico vero creare che procreare (Gottfried Benn ha scritto che «in verità è stato tutto prodotto da un maschio seduto / ciò che l’Occidente chiama le sue cose più alte»).
Probabilmente Dante, “gran poeta”, è stato anche un sublime retore – abile a inventare il «ver ch’ha faccia di menzogna» – , un incantatore e sciamano della parola – ci convince a prendere per vera una sua finzione! – , ma alla fine in ogni verso sentiamo che «È questa la poesia, essere giusti / col proprio amore e quello di lei. / Il resto è solo storia, o forse storie». Lo ha salvato «il cerchio con l’amore / quello che move il sole e l’altre stelle». La poesia è quell’artificio, quella alchimia verbale che trasforma il fuoco (dell’inferno) in luce (del paradiso), l’odio in amore (come disse una volta Pasolini, citando don Milani). Forse l’odio è più ovvio, o perfino più “naturale”, però l’amore fa esistere il mondo intorno a noi. Più che “muoverlo” gli dà incessantemente realtà. Ora, Dante non è gnostico né apocalittico: non c’è mai nella Commedia l’idea che il mondo meriti di finire. Nei primi versi del Paradiso Dio non è potenza ma luce, la luce che permette alle cose “materiali” di mostrarsi, di essere.
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