Siamo entrati a pieno regime in un sistema trasformista? Temo che l’analisi di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera sia tendenzialmente uno degli sbocchi dell’attuale situazione politica. Non si può, però, dire che già da ora si replichi il fenomeno che l’Italia ha a lungo conosciuto tra Ottocento e Novecento. Da Depretis a Giolitti il trasformismo comportava una negoziazione, e anche un cambio (occasionale) di maggioranza, su proposte di legge e interessi tra la coalizione di governo e i partiti e gruppi di minoranza o opposizione che dir si voglia.

Il governo Conte, per la verità, non concorda con Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia niente di importante. Centro-sinistra e destra cercano reciprocamente di convincere i rispettivi elettorati che abbia un senso la sceneggiata in cui si esibiscono, cioè di candidarsi al sostegno di qualche provvedimento o iniziativa reciproca.

In realtà la situazione è ancora incerta perché molti partiti giocano a carte coperte. I Cinque Stelle non hanno mai dichiarato di voler rinunciare al loro obiettivo principale, quello delle origini: far saltare il regime parlamentare e imporre la teoria dell’auto-sufficienza praticamente assoluta del cittadino elettore, che può decidere tutto, fare a meno delle competenze e delle professionalità.
In comune con Berlusconi e con Salvini, il giovin Signore che incanta Il FattoQuotidiano, cioè il sempre ministro Di Maio, ha la concezione piglia-tutto della rappresentanza politico-parlamentare. Chi è eletto, hanno sempre proclamato Berlusconi e Salvini, deve rispondere dei propri atti agli elettori e mai a chi non è stato votato. È il caso, per esempio, dei magistrati (contro i quali si è sempre rivolta l’ira di Forza Italia e della Lega), della Corte costituzionale e anche degli enti non costituzionali che hanno poteri propri.

Siamo in presenza di un punto forte della teoria politica del populismo, della sua radicale antitesi alla democrazia politica di origine liberale. Chi non ha capito la natura eversiva di questa proposta, e l’accetta, sono quanti in seno al Pd propongono un’alleanza strategica con Cinque Stelle. È il caso del ministro Dario Franceschini, che non ha mai smentito questa vocazione a un inciucio pericolosissimo. E non risulta che una sola volta il suo compagno segretario, Zingaretti, abbia preso le distanze.

A farlo, invece, e tempestivamente, sono stati, nei confronti di un critico esplicito di questo sovversivismo istituzionale pentastellato, Carlo Calenda e il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, autore di una proposta che la grillizzazione avanzata del Pd ha reso come inesistente. Per loro Nicola Zingaretti ha avuto parole di (civile, questo sì) dissenso, ma nei confronti della natura consustanziale dell’alleanza tra Cinque e Pd proclamata dal ministro per gli affari culturali, ha mantenuto un furtivo e opportunistico silenzio. Dunque, il segretario pidiessino ha manifestato un tendenziale consenso, cioè ha avallato la possibilità che dentro il Pd l’iniziativa di Franceschini possa essere discussa, e quindi anche accolta.

Siamo in presenza di un Appello ai fratelli in camicia pentastellata che viene lanciato dall’interno del gruppo dirigente del Pd. Nell’agosto del 1936 a farlo, in riferimento ai fascisti, ancora fedeli al programma di ampie riforme sociali dei Fasci di combattimento, fu Ruggero Grieco (con la firma di oltre 60 dirigenti del PcdI). Oggi il sostituto (non direi proprio l’erede) del partito comunista è una forza priva di qualunque identità, anzi direi bon a tout faire. A Roma vive paciosamente insediato ai Parioli. Non si vede come possa riuscire a contrastare Virginia Raggi che gode del sostegno delle periferie romane per la semplice ragione che contro di esse non ha fatto niente.

Al governo il Pd, se si esclude l’attività vigile di Gualtieri, è una finta presenza. Privo di un programma vive alla giornata inseguendo leggine tappabuchi e compensative di micro-interessi. Esattamente come fanno i Cinque Stelle. Ma nella loro biografia politica c’è un comico, e non uno che, come in quella del Pd, si chiamava Antonio Gramsci. Non è riuscito, malgrado si fosse impegnato, a smontare nessuno dei decreti sulla sicurezza del ministro Salvini. Grazie all’imperizia di un totus politicus come Franceschini, non ha fatto niente per garantire l’apertura di musei, archivi, biblioteche, e consentire agli studenti universitari di completare le loro tesi di laurea.

Finora Zingaretti si è distinto nel fare lega coi Cinque Stelle con una politica economica per lo più di sussidi e di assistenza. In questo modo non si aumentano gli investimenti né l’occupazione, ma si aumenta il debito che viene a gravare sui giovani. Addirittura, lo sbando e la deriva in cui si muovono Zingaretti, Orlando e Franceschini è testimoniato dall’aver raggiunto il proprio partner Di Maio nel riesumare il sistema elettorale proporzionale, purtroppo al di fuori di un disegno di riforma costituzionale.

Salvatore Sechi

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