Nel luglio 1920 lo scontro si era ora spostato sulla questione degli aumenti di salario e sulla riduzione dell’orario di lavoro. La FIOM (sindacato metalmeccanici) chiese il rinnovo del contratto per ottenere aumenti salariali e altre richieste, che gli industriali accolsero solo in parte. Venne proclamato in risposta uno sciopero bianco da parte dei lavoratori, a cui gli industriali controbatterono con una serrata, ovvero la chiusura delle fabbriche. Il 1º settembre iniziarono le occupazioni principalmente a Torino, Milano e Genova e poi in tutta Italia. All’interno delle officine della Società Piemontese Automobili si iniziò anche a produrre bombe a mano.

Gli operai organizzarono servizi armati di vigilanza disposti a scendere allo scontro anche con l’esercito che assunsero il nome di Guardie Rosse. A favore degli scioperanti intervennero spesso i sindacati dei ferrovieri che organizzarono picchetti armati presso i nodi ferroviari per impedire l’intervento delle guardie regie. Gli operai il 2 settembre occupano le fabbriche a Bologna. l’occupazione delle fabbriche si estende anche nel capoluogo emiliano. Sono 56 le aziende coinvolte nell’agitazione.

Il ricordo di Alberto Trebbi

L’occupazione delle fabbriche a Bologna iniziò il 2 settembre 1920. Io allora ero operaio nella officina meccanica «Zamboni e Troncon» in via Frassinago, dove si fabbricavano macchine da pastifici e c’erano circa cento operai ed ero anche segretario della FIOM. L’occupazione delle fabbriche era stata decisa dal Congresso nazionale della FIOM, tenutosi a Milano il 16 e 17 agosto 1920 a seguito dell’ostinata resistenza dei padroni. Le promesse della guerra non erano state mantenute, il costo della vita era salito alle stelle, i salari erano miseri e le trattative con gli industriali erano fallite. Il Congresso della FIOM aveva deciso di fare l’ostruzionismo, lo sciopero bianco in tutte le fabbriche italiane e di occuparle se, come contromisura, gli industriali avessero fatto la serrata. A Torino, a Milano e in altre città del nord molte fabbriche erano state occupate e il fonogramma della FIOM nazionale a Bologna, dove si diceva di fare altrettanto, arrivò l’1 settembre ed era firmato da Buozzi e Colombini.

Il mattino, prestissimo, mi recai alla «Zamboni e Troncon » e qui non incontrai difficoltà; gli operai erano radunati fuori, entrarono e occuparono la fabbrica. Allora corsi subito in bicicletta alla fonderia «Parenti» presso la quale avevo lavorato durante la guerra. Arrivai poco dopo le 6 e fuori c’erano gli operai e dentro i soldati, chiamati dal padrone.
Busso alla porta e chiedo di parlare col dottore. Sentii Parenti dire: «Fallo entrare ». Entrai e gli dissi che avevo l’ordine di occupare la fabbrica e di gestirla con un consiglio di fabbrica. Mi fece entrare nel suo ufficio e appena dentro dissi a Michelini, un operaio che era con me, che andasse dai soldati avvertendoli che avevamo l’autorizzazione ad aprire i cancelli.

Parenti tace e gli operai entrano e allora io lascio Parenti nell’ufficio, salto su una gru e parlo brevemente: dico il perché dell’occupazione, che bisognava lavorare come prima, proseguire nella produzione e segnare le ore. Dissi anche che si doveva dare prova di senso di disciplina, di capacità e di responsabilità. Poi chiesi scusa se me ne andavo perché c’era ancora molto da fare. Quando arrivai alla «Calzoni Fonderia » tutto era già fatto e allora andai alla «Minganti», allora in via Fontanina dove si fabbricavano macchine per le sigarette. Dissi al sig. Minganti di lasciare la sede e gli spiegai i motivi. Esitò, andò dietro al suo tavolo ed estrasse una rivoltella dal cassetto; poi rimise dentro la rivoltella, chiuse il cassetto e se ne andò dicendo, in bolognese: «Av las anch quella le » (Vi lascio anche quella).

Nel pomeriggio ricominciai il giro e andai nell’officina «Barbieri» di Castelmaggiore, dove la fabbrica non era ancora occupata e gli operai erano in grande maggioranza aderenti alla Vecchia Camera del Lavoro anarchico-sindacalista, che non era d’accordo con l’occupazione (Malatesta stesso era contrario). Parlai agli operai, li persuasi e anche quella fabbrica fu occupata. Ad occupazione avvenuta arrivò Clodoveo Bonazzi e aderì. Poi fu la volta dell’officina meccanica «Maccaferri », di Zola Predosa, dove lavoravano circa 150 operai. Feci un’assemblea nella Camera del Lavoro che durò 16 ore. Gli operai non erano d’accordo per l’occupazione, non la volevano, avevano fiducia nel padrone. Riuscii, ma feci molta fatica, a persuadere la maggioranza e allora facemmo un corteo dalla Camera del Lavoro fino alla fabbrica e le donne erano in testa. Ai cancelli trovammo i carabinieri e io dissi al maresciallo che dovevo occupare la fabbrica. «Voi state fuori», fu la risposta e intanto i carabinieri puntavano le armi.

Il cancello era sprangato e allora noi andammo in un cantiere, prendemmo una guidana (uno di quei lunghi e grossi pali che servivano per fare i ponteggi nella edilizia) e frattanto fuori gli operai urlavano. Poi ci attaccammo in molti alla guidana e buttammo giù il cancello e appena dentro il maresciallo tentò di sparare, ma noi gli alzammo il braccio costringendolo a sparare in alto. Io presi il maresciallo per la giubba e intanto gli operai occupavano l’officina. Poi lasciai il maresciallo che subito mi inseguì, scavalcai una rete alta non meno di quattro metri, mi buttai sotto, salii sulla bicicletta e arrivai in tempo alla Camera del Lavoro dove era stato convocato il direttivo della FIOM. Quello che avvenne poi è noto. Vi furono riunioni dei direttivi socialista e della CGL: continuare o contrattare. Per me si doveva continuare, tanto più che la lotta era aperta anche nelle campagne. Poi fecero un plebiscito e prevalse la contrattazione.

Era finita: Giolitti fu abile: fece delle concessioni, un buon contratto di lavoro per gli industriali, un po’ di demagogia. Anche in campagna finì con la contrattazione e nell’ottobre, verso la fine, ci fu il patto «Paglia-Calda» che fu una importante conquista che non trovò applicazione duratura poiché i padroni della terra dicevano che incideva troppo sulla rendita fondiaria. Gli agrari, sconfitti dalla compattezza dei lavoratori della campagna, organizzarono e stipendiarono allora le squadracce fasciste che trovarono nel governo e nella polizia il pieno appoggio. Seguirono lotte dure per i lavoratori, che furono sconfitti, perché nella lotta non vi era più l’unità.

CHI E’ ALBERTO TREBBI – Alberto Trebbi (1892–1975) ha aderito fin da ragazzo agli ideali socialisti e, nel settembre 1920, ha diretto la Fiom bolognese durante l’occupazione delle fabbriche. I fascisti lo hanno perseguitato per tutto il ventennio: bastonato più volte, assieme alla moglie Ellena Tannini, è stato arrestato nel 1925 e condannato al confino a Lipari per cinque anni.

Per tutti gli anni Trenta ha continuato, nonostante la stretta sorveglianza della polizia, ad essere un punto di riferimento per l’organizzazione clandestina antifascista. Il suo negozio di calce e gesso in vicolo Broglio è uno dei centri più importanti della Resistenza in città. Dopo una lunga detenzione nel carcere bolognese e a Castelfranco Emilia, il 21 gennaio 1944 Trebbi sarà deportato nel lager tedesco di Dachau, da dove riuscirà a ritornare, ormai ridotto a 43 chili di peso, nel maggio 1945. Nel dopoguerra sarà presidente del Consorzio provinciale delle cooperative di produzione, lavoro e trasporti di Bologna (ex Consorzio fra birocciai, carrettieri e affini) e della Cooperativa Fornaciai. Questo suo racconto è stato scritto negli anni settanta.

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