Nel “Si&NO” del Riformista spazio all’accordo in Spagna tra il Psoe di Pedro Sanchez e Junts, il partito degli indipendentisti catalani guidato da Carles Puigdemont. Giusto l’accordo? Favorevole Alessio De Giorgi, direttore del Riformista.it, secondo cui l’intesa che farà nascere il nuovo governo porterà a “chiudere il cerchio superando i drammatici fatti del 2016“. Contrario lo scrittore Andrea Venanzoni che ribatte: “Quest’accordo rischia di essere la pietra tombale dell’autonomia e la miccia di tensioni”.

Qui il commento di Alessio De Giorgi:

No, non voglio fare l’apologia di Sánchez. Fossi spagnolo probabilmente non l’avrei votato, quel governo che lui varerà salvo sorprese nella giornata di oggi convince poco ed il suo programma è intriso di massimalismo e di tanta ideologia ultra-progressista: il nuovo governo Sánchez, tanto più che sposta ancora più a sinistra il baricentro del precedente, non può convincere. Ma non è di questo che stiamo parlando. Non è questo il luogo per dare un giudizio politico sul nuovo governo Sánchez, sia perché il dibattito in Spagna non è su questo punto, sia perché sono gli elettori ad avere l’ultima parola su chi li governerà, indipendentemente da ciò che ciascuno di noi può pensare o volere. E il responso delle urne ha inequivocabilmente determinato che popolari ed estrema destra di Vox non avessero la maggioranza alle Cortes, al contrario dei socialisti -che hanno saputo recuperare un determinante elettorato centrista – e della sinistra, indipendentista o autonomista che sia.

Per affrontare l’argomento Sánchez, invece, bisogna partire da quello che è un dato di fatto. La società spagnola e ancor più la politica spagnola sono da tempo polarizzate, fino al punto da spingerci a sostenere che oggi la Spagna è il Paese europeo che politicamente più si assomiglia agli Stati Uniti: sinistra e destra è da tempo che non riescono più a parlarsi, le loro posizioni sono quasi sempre estreme, il centro è inesistente, tanto più dopo la parabola dei Ciudadanos e del loro leader Albert Rivera, che alle ultime elezioni neppure si sono presentati dopo una serie di errori tattici e strategici. In questa situazione, dall’Italia si resta basiti a vedere l’incapacità dei settori più riformisti dei socialisti spagnoli di contenere lo spostamento a sinistra dell’asse del nuovo governo ma anche, d’altro canto, di larga parte dei popolari, che evidentemente non hanno imparato la lezione delle scorse elezioni e perseverano nel fatale errore che allora commisero: schiacciare le proprie posizioni su quelle dell’estrema destra di Vox, rincorrendole, non solo ha loro sottratto il voto di una larga parte di ceto medio-alto, urbano e moderato, facendo loro mancare il risultato che tutti davano come certo di una maggioranza assoluta alla destra in Parlamento, ma oggi impedisce loro di fare politica. Già, la politica. Quella che, nella sua espressione più alta, ha richiamato l’altro ieri su El Pais José María Lassalle, un grande liberale, a lungo deputato popolare con incarichi di governo. Lassalle ha offerto al leader del PPE Feijóo una intelligente via d’uscita all’impasse in cui si sta cacciando con questo abbraccio che rischia di essere sempre più mortale con la destra estrema, trumpiana e potenzialmente violenta di Vox: offrire a Sánchez ed ai socialisti l’astensione nel voto di fiducia in cambio della rinuncia all’accordo con gli indipendentisti catalani di Junts e del conseguente ritiro della legge sull’amnistia.

Ed è sempre la “politica”, per concludere, che mi ha indotto a scrivere questo sì a Sánchez, nonostante i dubbi che ho. Se c’è un elemento che caratterizza tutte le democrazie – e solo le democrazie – quando vogliono superare le fratture, è l’amnistia politica. Di questo stiamo parlando: perché l’accordo coi catalani è esattamente chiudere il cerchio superando i drammatici fatti del 2016, che portarono la democrazia spagnola ad una crisi gravissima, esattamente come l’amnistia spagnola del 1977 interessò anche i franchisti o quella italiana del 1946 i fascisti. Perché è la politica che deve indurre chi governa a saper perdonare. Un perdono del tutto laico e interessato, perché i processi politici di rottura anche violenta, se comunque popolari (come non v’è dubbio furono franchismo, fascismo e indipendentismo catalano), la democrazia deve saperli combattere nel breve periodo ma anche essere capace di risolverli nel lungo. E deve farlo con la politica, e non con la forza: la democrazia su questo non ha alternative praticabili. C’è una domanda del discorso di ieri di Sánchez alle Cortes che mi ha colpito: cosa preferiscono gli spagnoli? La Catalogna del 2016 o quella del 2023? Nella banale risposta a questa domanda ci sta tutta l’intelligenza politica di un leader che forse riuscirà a chiudere quel cerchio che drammaticamente si aprì nel 2016. Altro che Orbàn dell’Europa meridionale, come i popolari a Madrid e a Bruxelles dipingono Sánchez, dimostrando davvero poca intelligenza. Certo, il rischio che Sánchez si sta assumendo con questo accordo, sfidando le piazze che la destra estrema fomenta, è enorme: ma, che ci piacciano o meno, i leader non galleggiano, rischiano. Togliatti e De Gasperi lo seppero fare, quando le ferite della guerra civile erano reali. Sánchez capisce che questa è l’unica strada per dare un futuro non solo al suo governo, ma al suo paese. È anche un modo per far corpo all’idea del primato della politica, come elemento per sottrarre l’esercizio della volontà popolare dal condizionamento di altri poteri. E in questo, è un tema che interpella anche noi.

Giornalista, genovese di nascita e toscano di adozione, romano dai tempi del referendum costituzionale del 2016, fondatore e poi a lungo direttore di Gay.it, è esperto di digitale e social media. È stato anche responsabile della comunicazione digitale del Partito Democratico e di Italia Viva