Che cos’è la poesia, quale il suo ruolo nella società, come liberarla dal ghetto in cui è (stata) relegata. Domande che ieri, come oggi, aspettano risposte. “Scrivimi per favore e dimmi dove sta andando la poesia, o se è già morta”, chiese il giovane poeta John Lehmann, collaboratore della Hogarth Press, piccola ma prestigiosa casa editrice dei Woolf, alla stessa Virginia.

Era il 1932, e lo scambio di missive tra il poeta e la grande scrittrice avveniva in un delicato momento di passaggio per l’intera l’Inghilterra reduce dalla rivoluzione industriale, quindi coinvolta nei cambiamenti della società, e del linguaggio. Questa la risposta di Virginia al suo incalzante interlocutore: “Noi scrittori di prosa siamo i padroni della lingua, non i suoi schiavi…,la nostra sfera d’azione è la vita nel suo insieme…, mentre il poeta cerca di descrivere un mondo che forse non esiste”. E ancora: ”Da tempo ormai la poesia ha evitato ogni contatto con – (cosa posso dire…?) – con la vita?”.

Giudizi severi, forse influenzati anche dalla depressione che affliggeva la Woolf, tanto che lei stessa, rimeditando sull’argomento, riscrisse al suo amico suggerendogli di aggiungere alla (nobile) essenzialità della poesia, la normalità della comunicazione. Riflessioni più che mai attuali, visto l’evidente deterioramento del linguaggio nell’era del virtuale, tanto da richiedere – contro una sorta di mercificazione quotidiana – l’urgenza di una sua manutenzione poetica. Sintesi perfetta, allora, tra qualità e necessità di comunicare: nient’altro che la lingua di Louise Glück, poeta di rara perfezione e bellezza, vincitrice del Pulitzer Prize nel ’93 per “The Wilde Iris” (“L’iris selvatico”, Giano 2003), e di altri numerosi premi, dal National Book Critics Circle Award al Bollingen Prize al National Book Award. Nominata Poet Laureate degli Stati Uniti, Louise Glück insegna all’Università di Yale.

“C’era una guerra tra il bene e il male./ Decidemmo di chiamare il corpo bene./ l’amore voleva parteggiare per il corpo…/ che ci ha resi paurosi d’amare”. Convive nella poesia della Glück una guerra tra opposti: spirito-materia; vita-morte; percezione-delusione per l’ingannevole accoglimento tra due entità che non può coesistere, tanto meno esistere; un conflitto tra anima e corpo lasciato in primo piano anche tra spazi, trattini e segni di interpunzione dei versi.

Questo, il mosaico lucidamente razionale di una delle ultime raccolte di Louise: “Averno” – traduzione di Massimo Bacigalupo, postfazione di Josè Vicente Quirante Rives, edizioni Dante & Descartes ed Editorial Partenope, pp. 161 – dove è l’autrice stessa a presentare in esergo il teatro di posa di quel suo microcosmo poetico, definendolo semplice nota geografica: “Dal latino avèrnus, piccolo lago vulcanico a sedici chilometri a ovest di Napoli, che i Romani credevano fosse l’ingresso dell’oltretomba”, per poi connotarlo, fin da “Le migrazioni notturne”, versi introduttivi all’intero testo, di una valenza almeno doppia. “Vaghi tra terra e morte/che sembrano, infine,/ simili, stranamente”. Il Lago-Cratere è quindi immagine-simbolo della riconduzione dei morti e insieme luogo di un’anima che mai allenterà la lotta contro il corpo, in cerca solo di rinfrancarsi, forse perché appagata dal non esistere. “Il tempo era vissuto/ meno come narrazione/che come rituale/…Inganno, Menzogne, Abbellimenti che chiamiamo ipotesi…”

Esplicito e senza infingimenti è il pensiero dell’autrice anche su quale debba essere il compito dell’artista, l’impossibilità a sentire la tua voce/ per i gemiti del vento non può allora non allargarsi a una necessaria abdicazione, lasciare alla terra la capacità di fecondare, mandare in sboccio i frutti. “Non abbiamo sparso i semi poiché non eravamo necessari alla terra”, deduce Louise, accettando l’inadeguatezza nei confronti del mondo esterno e verso se stessa. “Dimmi che questo è il futuro/non ti crederò./ Dimmi che sto vivendo,/non ti crederò”, timore che diventa metro di incredulità a sostegno del ruolo assegnatole dalla poesia: “Come se l’artista avesse/ il dovere di creare/ speranza, ma con cosa? cosa? la parola stessa/ falsa, un mezzo per confutare/ la percezione – All’incrocio,/le luminarie delle feste…” Eccola allora l’assenza di verità fuori e dentro se stessa, dove perfino il sogno svilisce, non trovando rifugio nei suoi fantasmi. E bugiardo resterà il richiamo: “Non sei sola,/ diceva la poesia,/nel buio del tunnel”.