Nell’immediato dopoguerra la consapevolezza che in un’era atomica la guerra perde qualsiasi significato razionale – non ci sarebbero più stati vinti e vincitori – raggiunse alcune grandi figure intellettuali. Vorrei segnalare lo straordinario discorso tenuto da Thomas Mann nel maggio 1950, a 75 anni (morirà nel 1955) all’università di Chicago, che ci offre una riflessione sulla nostra stessa civiltà. Tralasciamo le parti dedicate alle liberal-democrazie, dove invita a cercare un equilibrio tra i due valori fondamentali, l’uguaglianza e la libertà, altrimenti la prima si traduce nella tirannide e la seconda porta a una dissoluzione anarchica, e concentriamoci sul vibrante appello pacifista, lì dove dice che dal fondo del cuore umano si leva il grido “Pace, per amor del cielo, pace!”.

Qui Mann si riferisce alla saga medievale dei Nibelunghi, rielaborata da Wagner nella celebre quadrilogia dell’Anello del Nibelungo, che dovette anche ispirare sia pure indirettamente Il signore degli anelli di Tolkien (entrambi gli autori erano interessati a una attualizzazione del mito). In essa, all’interno del dramma musicale L’oro del Reno, i due giganti Fafner e Fasolt si contendono appunto l’oro, e alla fine il primo uccide il secondo fuggendo con il tesoro. Mann commenta che invece in una guerra atomica qualsiasi vincitore “non troverebbe nulla su cui stendere il suo ventre di drago”, e ancora: “la bomba all’idrogeno usata al posto della clava non lascia reliquie, né tesori che valga la pena di custodire, nemmeno la democrazia”. Di qui l’appello all’America e alla Russia – la prima predisposta a un “isterismo sventato”, la seconda “agli sfoghi di ferocia sarmatica” (il riferimento è a un antico popolo iranico che si insediò nella Russia meridionale) – a imboccare subito la via dei negoziati per il disarmo e la non proliferazione. Tra le due superpotenze Mann ravvisa, curiosamente, alcune affinità profonde, e in particolare, una “fiducia senza riserve nella convivenza umana, che si distingue molto sensibilmente dall’esclusivo individualismo del carattere francese e inglese”.

Mann, che ormai vive da molti anni negli Stati Uniti, e si dichiara dunque patriota sia tedesco che americano, invita in particolare l’America a “prendere l’iniziativa di una conferenza mondiale sulla pace, dove si traccia il disegno di un nostro finanziamento della pace” e si auspica “una comune amministrazione della terra e una distribuzione di beni che abolisca dalla sua faccia la triste povertà e la carestia e che abolisca il dolore non necessario, non voluto da Dio ma causato dalla colpa dell’uomo”. Ora, quella parentela virtuosa tra America e Russia, confidanti entrambe nella comunità umana oltre ogni egoismo individuale, appare oggi lievemente dispersa, però quel riferimento dello scrittore, mentre suggerisce la costruzione di un “governo mondiale protettore della legge e della pace”, al “dolore non necessario”, potrebbe essere oggi il punto di partenza di qualsiasi umanesimo, di qualsiasi forza politica che intenda criticare l’ingiustizia del mondo.

Ma ora, per riportare il discorso di Thomas Mann alla nostra realtà attuale, alla vita quotidiana, chiediamoci che significa concretamente essere pacifisti, in che modo trasforma il proprio modo di essere. Con un salto vertiginoso dalla Lubecca protestante di Mann ci spostiamo alla Spagna catalana, vagamente induista, che ha dato i natali a Raimon Panikkar, grande teologo e mistico, sacerdote cattolico per metà indiano, impegnato sul tema della interculturalità. In un libro utilissimo su Panikkar – La pace è un’utopia? (Rubbettino) – l’antropologo Giuseppe Cognetti ci mostra che la pace non è un mezzo, ma un fine: “essere pace” (Thich Nhat Hanh). In altri termini: “non è semplice assenza di guerra per dedicarci ai nostri affari”, non è un mezzo per consumare di più e per godere con maggiore tranquillità gli immensi privilegi che abbiamo in questa parte di mondo (fondati su squilibri planetari), ma un modo di essere, che coincide con il pluralismo.

Cosa intendere per pluralismo? È il contrario del monismo: se io ho ragione non significa che tu hai torto: “Ritenere, per esempio, che le coppie di fatto o gli omosessuali siano l’errore dinanzi alla verità supposta naturale della famiglia eterosessuale monogamica e del matrimonio, che sono solo prodotti storici, è monismo…” E ancora: perché non accettare che nella realtà attuale convivono famiglia, matrimonio, coppie di fatto, etc. e che “la vera discriminante è se viene rotta o meno la relazione originaria in cui tutti siamo, se cioè viene operato un corto circuito che interrompe l’amore, espressione esistenziale e morale di questa relazione?”. In questo senso “disordine” non è affatto la omosessualità (come pure pretendeva Ratzinger, un pontefice dotato di grande sensibilità filosofica) ma la “mancanza di amore”.

La pace è l’adozione da parte di ciascuno di questa prospettiva non dualistica, è ritenere che la nostra cultura occidentale, benché porti in sé uno slancio di universalità, “non è universale ma il risultato di una esperienza storica limitata”. Occorre essere pluralisti, per Panikkar, poiché la realtà stessa è pluralistica, e dunque dobbiamo accettare la compresenza contraddittoria di prospettive diverse, non conciliabili tra loro, senza tentare alcuna sintesi: “entrare in dialogo affinché la tensione, la polarità, non si trasformi in conflitto devastante”. “Diavolo” etimologicamente viene da “diaballo”, è colui che separa, che ci spinge a una rottura di quella relazione originaria. Mettere insieme Mann e Panikkar potrà sembrare un azzardo non interamente fondato, eppure ci ricorda che il nobile appello alla pace del discorso di Chicago, rivolto alle superpotenze all’inizio della Guerra Fredda, non può essere disgiunto da un appello alla pace che ognuno di noi dovrebbe rivolgersi: trasformare ogni giorno il conflitto in dialogo, e dunque trasferirlo su un piano più alto, simbolico, implica “la lunga e faticosa strada della conoscenza di sé”.