Caro Mario,

i tuoi solidi argomenti ci invitano a fare, se capisco bene, un bagno di realismo; cioè a prendere atto della situazione data (disastro dei centristi, inamovibilità dello schema bipolare) per scegliere, per così dire, il male minore, contaminando con iniezioni di riformismo il centrosinistra a guida schleiniana.

Le 8 posizioni del Pd sull’Ucraina

Ora però, a proposito di realtà, io ti invito a leggere l’editoriale confezionato ieri da un collega, Marco Travaglio (lo so, non è tra i nostri preferiti), che si è preso la briga di enumerare le posizioni espresse l’altro giorno sull’Ucraina dai parlamentari europei eletti dal Pd: sono 8 (dicansi otto), e ognuna di esse ha diverse sfumature e accentuazioni. Tu mi hai inviato questa mail prima del voto e, immaginando come sarebbe andato, dici che il Pd fa cadere le braccia; direi che giovedì mattina siamo andati oltre. Per viltà o per ideologia, o per le due cose insieme, ognuno degli eletti Pd ha scelto di andare per conto suo, esaltando le proprie ambiguità personali e di gruppo. Mentre Schlein faceva finta di niente e non ha pronunciato parola su un tema, che, ammetterai, non è secondario.

La collocazione internazionale di un partito dovrebbe costituire il suo Dna, l’elemento costitutivo e distintivo: altrimenti come e su cosa andrebbe individuato e riconosciuto? Su che base distinguere la forza cardine del centrosinistra dagli altri, leghisti e meloniani compresi? Infatti l’altro giorno distinzione non c’è stata, tant’è che tutti hanno votato contro l’uso delle armi fornite all’Ucraina per opporsi allo Zar: motivo, per quello che ci riguarda, di profonda vergogna per tutti, nessuno escluso (fatti salvi i quattro valorosi che hanno scelto di votare sì all’articolo 8). Ma distinzione non c’è neppure nelle scelte che si compiono ogni giorno in sede nazionale. Al di là del flatus vocis della propaganda, sui temi che contano (sviluppo e investimenti, incentivi al merito, lotta ai corporativismi, etc…) destra e sinistra sono quotidianamente unite nella protezione di piccoli e grandi privilegi, nell’approccio sospettoso verso il mercato, nelle politiche di pura redistribuzione che propongono.

Al punto – caro Mario – che, per trovare qualche differenza tra destra e sinistra bisogna rifugiarsi nell’atteggiamento più aperto della sinistra verso i cosiddetti diritti (che sfocia molto spesso nella caricatura della cultura woke), o al fastidio che la naïveté della classe dirigente della destra provoca spesso, a fronte del compassato, tartufesco e conservatore aplomb di chi guida la sinistra. Un po’ poco direi, non credi?

Il modus operandi della sinistra è lo stesso da 30 anni

Io so che tu non neghi affatto questi difetti (eufemismo) della sinistra. Ma ritieni che una strategia “entrista” possa consentire un giorno ai riformisti di prendere le redini del partito principale del centrosinistra e guidare un’alternativa credibile al centrodestra. Però dimmi con sincerità una cosa. Anzi ditemela, tu e gli amici che battono sul tasto dei plurimi fallimenti del centro per motivare lo stanco approdo verso i lidi del centrosinistra: da quanti decenni le strategie della sinistra (unirsi per vincere – riuscendoci a volte – per poi crollare sistematicamente alla prova del governo) sono sempre identiche a sé stesse, e finiscono sempre nello stesso modo? Cioè male, malissimo? E perché dunque state a vivisezionare la pagliuzza nell’occhio di chiunque si batte per costruire un centro moderno, liberale e riformista, ma dimenticate la trave che da trent’anni, dall’avvio della sciagurata stagione del cosiddetto bipolarismo, condanna la sinistra prima all’indistinzione programmatica e culturale per raccattare un voto in più dell’avversario, e poi a sottostare il giorno dopo ai diktat di coloro che, nei campi più o meno larghi che la sinistra mette su, tutto sono tranne che riformisti?

Su questo, Mario, la risposta non c’è, ma è qui – parliamoci chiaro – che scatta la tua/vostra obiezione di fondo: è vero quello che dici, ma oltre lo schema del bipolarismo non possiamo andare. Non ne sono convinto. Dal 2013 ad oggi la novità della politica italiana è stato il M5S, fuori dai due poli. Il governo Conte 1 era fatto da M5S e Lega, con FI e FdI all’opposizione. Il governo Conte 2 era Pd e M5S, dopo una lunga campagna elettorale in cui i due erano contrapposti. Mario Monti prima e Mario Draghi poi non erano schierati con i due poli. Erano “terzi”. Nel governo Renzi, Angelino Alfano portò il Nuovo Centrodestra dopo aver fatto la campagna con Berlusconi. E potremmo continuare a lungo: nessuna legge elettorale prevede il bipolarismo, e tantomeno l’indicazione a priori di quali alleanze di governo i partiti, eletti perlopiù con il proporzionale, andranno a formare in Parlamento. E il magnificato bipolarismo, anche se vagamente promosso dalle leggi elettorali, non ha alcuna rilevanza per i Presidenti della Repubblica, in momenti di crisi acuta del sistema. Distinguiamo quindi, per dirla con Gramsci, la dottrina politica dalla teoria della prassi. Per la prima i poli in Italia non esistono. Per la seconda, insistentemente sospinta da Berlusconi, sì.

Bipolarismo come una sorta di religione

C’è poi chi dice “oltre il bipolarismo non vogliamo andare”, avendone fatto una sorta di religione, malgrado nel mondo si stiano sfarinando anche i sistemi bipolari più consolidati (figuriamoci il nostro, nato solo in omaggio alla prima delle grandi offensive populiste, quella di Mani pulite, e costruito sulle sabbie mobili di riforme di sistema mai fatte). Altri, riconoscendo che il nostro bipolarismo non funziona, dicono “non possiamo”. Cioè si arrendono ad una condizione ineluttabile. Per superare il bipolarismo bisognerebbe mettere mano ad un riassetto dell’intero sistema (giusto, e allora?). Bisognerebbe che le forze politiche ne fossero convinte (perché mai dovrebbero esserlo in partenza, visto che oggi gli eletti li decidono sei-sette segretari di partito?). Bisognerebbe quindi avviare una lunga e faticosa battaglia politica e culturale (e perché non farla, mettendo finalmente i piedi nel piatto?). E qui veniamo al punto conclusivo, scusandomi per la sbrodolata.

La nostra missione sta nel dare idee

Noi siamo un giornale, il nome che porta lo conoscete. Il nostro unico obiettivo è mandare avanti delle battaglie per affermare proposte riformiste e innovative, che – al momento – vediamo negate in entrambe le coalizioni. Posizioni riformiste si affacciano alla ribalta politica solo raramente, e vengono in genere sconfitte, ma non è una buona ragione per abdicare in partenza. Perché se mollassimo verrebbe meno ogni possibile rinnovamento del sistema, la possibilità di fermare un declino che in Italia dura da trent’anni. Per questo sosterremo chi di volta in volta si farà portatore di istanze dal nostro punto di vista giuste. Sapendo – questa è la nostra fortuna – che non siamo un partito e non aspiriamo certo a crearne uno. Ma che la nostra irrinunciabile missione di riformisti sta nel dare idee di buona politica – originali, talvolta scomode o urticanti – aperte a tutti coloro che le sapranno cogliere.