Il caso non è chiuso. Anzi, è appena iniziato. Per due motivi: del dossier adesso si occupano la Commissione Ingerenze nei processi democratici del Parlamento europeo e i ministri dell’Interno dei 27 paesi Ue. La cosiddetta “polizia cinese” che si ritiene sia attiva nella più grandi città italiane – quelle dove la comunità cinese è una realtà importante – è una sporca e strana faccenda su cui va fatta urgentemente chiarezza.

La denuncia è della ong per i diritti umani Safeguard defenders basata a Madrid. La responsabile della campagna Laura Harth ha denunciato la presenza di una rete di centri di polizia cinesi in diversi Paesi. Ben undici di questi sarebbero in Italia. Il loro obiettivo è sorvegliare i connazionali presenti all’estero e rimpatriare chi opera in dissenso e contro il regime di Xi Jinping. Il tutto travesitito da “sportello pubblico” in aiuto a cinesi residenti in Italia per le più svariate pratiche amministrative, dal passaporto ai documenti di identità, dai certificati di morte alla patente, una sorta di agenzia di servizi che in realtà si infiltra e sorveglia le comunità cinesi all’estero e, quindi, anche le attività dei paesi ospitanti. Una Spektre con gli occhi a mandorla di cui però nulla è noto ai governi occidentali. La rete si comporrebbe di oltre 100 unità in almeno 53 Paesi sparsi nel mondo.

Ieri Laura Harth è stata sentita dalla speciale Commissione Ingerenze del Parlamento europeo e il presidente, il socialista francese Raphael Gluksman, ha detto alla fine che “è necessario annullare tutti gli accordi di cooperazione bilaterale e multilaterale in materia di polizia con la Cina”. Al di là dei motivi, anche necessari e illuminati per cui questi rapporti sono nati, il tempo e l’abitudine hanno probabilmente fatto abbassare l’attenzione e, anche, il controllo sul reale operato di questi sportelli pubblici che la comunità cinese residente in Italia ha ribattezzato “polizia cinese”. Glucksman ha bollato l’attività di questi “presunti uffici di polizia cinese come una pratica quasi mafiosa al di fuori delle leggi europee”. La Harth ha spiegato che «con questa rete di stazioni di polizia clandestina la Cina promulga un sistema di repressione transnazionale pensato per vessare i dissidenti e imporre il silenzio a chi critica il regime».

Mercoledì il dossier “polizia cinese” è stato oggetto di un question time alla Camera dei deputati. Riccardo Magi (+ Europa) ha citato i tre successivi rapporti pubblicati nel 2022 che hanno portato alla luce l’esistenza di oltre 100 stazioni di “polizia cinese” clandestine aperte dalla Repubblica popolare cinese in diversi Paesi del mondo. L’Italia ne ospiterebbe undici tra Milano, Roma, Bolzano, Venezia, Firenze e, ovviamente, Prato. Quella documentata dalla Ong, e su cui Magi, ha interrogato il ministro dell’Interno, sarebbe una storia in due tempi: i primi uffici si inserivano in un accordo di cooperazione internazionale per realizzare pattugliamenti congiunti, vuol dire che in Italia e in Cina avrebbero operato pattuglie miste di poliziotti cinesi ed italiani. La criminalità e le mafie cinesi sono da anni un problema anche sul territorio italiano.

Dopo questa prima fase, ha spiegato Magi sulla base del Rapporto Safegards, «sarebbero stati aperti altri uffici in numerose città italiane che, secondo le autorità cinesi, dovrebbero svolgere le funzioni di centri servizi». In seguito alla pubblicazione del Rapporto della ong, molti governi, ad esempio Canada, Irlanda, Stati Uniti, Portogallo hanno avviato inchieste per verificare i contorni ed eventualmente i profili di illegalità di questa pratica. Il ministro Piantedosi, rispondendo mercoledì in aula all’interrogazione di Magi, ha chiarito che «presso il Dipartimento della pubblica sicurezza non risulta alcuna autorizzazione all’apertura di centri cinesi per il disbrigo di pratiche in Italia». In ogni modo, ha assicurato il ministro, «le forze di polizia e di intelligence attueranno un monitoraggio con la massima attenzione e non escludiamo provvedimenti sanzionatori in caso di illegalità riscontrate».

Il ministro ha anche chiarito che cosa diversa sono gli accordi di cooperazione di polizia ed i pattugliamenti congiunti tra Italia e Cina “che si sono svolti dal 2016 al 2019”. Il Covid ha fermato tutto. E da allora l’attività non è più stata ripresa. Diverso ancora il caso di Prato dove a marzo è stata aperta una stazione di polizia cinese. Le indagini hanno dimostrato che in realtà l’ufficio ha seguito “solo” quattro richieste di pratiche amministrative. Il 16 novembre l’ufficiale di collegamento della Repubblica cinese è stato convocato al Viminale ma non ha aggiunto nulla rispetto a quanto avevano già detto i responsabili dell’associazione. La Digos ha fatto rapporto alla procura. E un analogo approfondimento è in corso a Milano.

Per la Harth la risposta «non è stata soddisfacente». «Perché, ad esempio, la polizia italiana era presente all’apertura di almeno una di queste stazioni a Roma?». È vero, poi, che «le autorità cinesi avevano espressamente parlato di queste stazioni in Italia come progetti pilota in Europa installati come uno dei maggiori traguardi delle operazioni congiunte di polizia?». Per Riccardo Magi «il tema esiste ed è serio. E c’è sempre troppo timore, per non chiamarla reticenza, a parlare di tutto quello che riguarda la Cina».

Intanto, su input della presidente Ursula von der Leyen, la commissaria agli Affari interni Ylva Johansson ieri ha portato il dossier alla riunione dei ministri dell’Interno europei. Il caso è apertissimo. E potrebbe dare presto altre sorprese. Non è un mistero infatti che la comunità cinese in Italia operi già con strutture parallele, nella scuola e nella sanità.

Avatar photo

Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.