Ma che cosa è questo “Eterno”, della cui corazza Severino si mette a difesa? Sta lì, sopra di noi, indecifrabile, incomunicabile, ma incontrovertibile? Siccome ogni grande filosofo crea la sua scolastica anche questo è avvenuto per Severino, letto da alcuni come l’ultimo dei pensatori metafisici, mentre il pensiero che conta corre verso ben altri lidi. Provo a dire perché non sono affatto d‘accordo con questa immagine che si dà di lui. La filosofia di Severino è una filosofia tragica, tutt’altro da una ricomposizione metafisica del mondo, garantito dall’Eterno che è in esso. È una filosofia aperta, piena di contrasti, come per me è ogni vero pensiero che, pensando la Vita, ne incontra le contraddizioni e non le risolve in un mondo immaginato.

Dunque, perché dico filosofia tragica, e dunque aperta, problematica, sorprendente? Perché l’Eterno, il Destino, la Necessità, La Gioia – parola di Severino – tutto ciò che incontra e si intreccia con il dolore del mondo non sta per conto suo, in attesa di non so che cosa per potersi realizzare, ma è in continua tensione, in continuo intreccio con la nostra finitezza, con la nostra storia alienata; sta in opposizione “con la terra isolata dal destino della necessità”, eppure partecipe di essa. Il dilemma di Severino è dentro ognuno di noi, ci sentiamo partecipi di una verità e, insieme, spaesati nell’età del divenire di tutto, nell’età in cui sembra che la Tecnica da mezzo sia diventata fine. Tesi di Severino che ho avuto occasione di discutere più volte anche con lui, provando perfino a contestare l’esito cui essa conduce. Ma non è questa la sede per approfondire il tema se non per dire che per Severino il sentiero della Gioia non è perduto per l’umanità, il suo linguaggio della vita si mescola a quello del finito e della morte.

Oggi guardiamo alla sua eredità, come si fa con i classici. Siccome fino a ieri lui era vivo – l’ultimo convegno dello scorso giugno fu sul nodo Severino-Heidegger – ne avvertiamo la assenza, per me di una persona amica e gentile, ma insieme sappiamo che il suo pensiero resta incardinato nella nostra vita, direi anche nella vita dei quasi tutti che non lo possono incontrare come filosofo, giacché lui ha pensato il destino dell’uomo, e soprattutto il destino di Europa, una civiltà legata alla propria filosofia, che ne ha segnato la pur tragica vicenda.

E finisco con una punta di ironia che sfocia anche in una rivalutazione del Mezzogiorno, di solito strapazzato per mille ragioni anche valide. Dunque, Severino era nato a Brescia e aveva vissuto tra Brescia, Venezia, Milano. Si sa bene che fu escluso dall’Università cattolica di Milano, in anni lontanissimi, perché la sua filosofia venne giudicata incompatibile con il pensiero cristiano, come effettivamente era. Ma non è su questo che voglio concludere. Una volta gli chiesi: come mai da una città come Brescia, produttiva di cose che si toccano, di armi, di prodotti metalmeccanici, insomma una città del Nord industriale e produttivo, come mai, da lì, tanta metafisica? Lui mi rispose, forse un po’ sorpreso della domanda: mio padre era siciliano. Allora tutto mi fu chiaro, anche Gentile era di Castelvetrano. il Mezzogiorno ha avuto, per dir così, la risorsa della Metafisica, e qualcuno dice: perciò state nei guai. Io la penso diversamente, questa sua vocazione ha dato qualcosa al mondo che non si tocca, ma che forse proprio per questo è prezioso, e preme, come invisibile, sotto la pelle di ciò che si vede e, appunto, semplicemente si tocca.