Per capire le ragioni dell’uscita di Biden sui vaccini basterebbe ricordare che le campagne di vaccinazione in America Latina – la regione più colpita dal coronavirus, ma anche la tradizionale area di influenza degli Stati Uniti – sono dominate dalla Cina. Già dall’anno scorso Pechino promuove una strategia di espansione economica e strategica con la fornitura di ventilatori e dispositivi di protezione. Secondo il Financial Times, le aziende cinesi – capofila la Sinovac di Pechino – hanno consegnato più della metà delle 143,5 milioni di dosi di vaccini alle 10 più popolose nazioni latinoamericane: un totale di quasi 76 milioni di dosi complete o di ingredienti chiave per realizzarle. I principali fornitori occidentali nella regione, AstraZeneca e Pfizer, hanno consegnato, insieme, 59 milioni di dosi (ma una parte delle dosi di AZ sono state fornite tramite la struttura Covax dell’Organizzazione mondiale della sanità). Ci ha provato anche la Russia con il suo Sputnik, ma il risultato è stato modesto: appena 8,7 milioni di dosi, per lo più dirette in Argentina.

E l’America? Non fa una grande figura: le farmaceutiche statunitensi hanno firmato accordi che valgono per il futuro. In concreto, finora, solo la Pfizer ha fornito all’America Latina appena 19,5 milioni di dosi. Di recente, le consegne di dosi cinesi in Brasile, il più grande acquirente di vaccini nella regione, sono rallentate. Per alcuni potrebbe essere il segno che il dominio del Dragone è ancora incerto. Ma a ben guardare il rallentamento potrebbe essere causato dalle critiche che il presidente Jair Bolsonaro e il ministro dell’economia Paulo Guedes hanno rivolto a Pechino. Bolsonaro ha diffuso sospetti sulla Cina circa l’origine del virus, ha detto chiaro e tondo che il mondo si trova nel pieno di una guerra chimica e che la Cina ne starebbe approfittando per aumentare il suo Pil. Ce n’è a sufficienza per scatenare la reazione di Pechino e il blocco delle forniture di vaccini. Il che, però, mostra una volta di più il peso economico e politico conquistato dal gigante asiatico nell’area.

Nel frattempo, i rappresentanti dei governi latinoamericani, da Luis Abinader, presidente della Repubblica Dominicana, a Euclides Acevedo, il ministro degli esteri del Paraguay, rivolgono appelli agli Usa affinché facciano qualcosa di più per aiutare la popolazione contro l’emergenza sanitaria. Ma la risposta americana è, ad oggi, modesta. I dati forniti da Antony Blinken, segretario di Stato degli Stati Uniti, elencano 4 milioni di dosi di vaccino condivisi con Canada e Messico, altri 60 milioni di dosi da condividere nei prossimi due mesi (ma non si sa con quali paesi), 2 miliardi di dollari degli Stati Uniti già versati all’impianto di Covax, dai quali deriva una parte dei 6,5 milioni di dosi fino ad ora consegnati all’America Latina.

Ma si tratta di numeri davvero scarsi rispetto all’enorme domanda di vaccini da parte di una regione che conta 650 milioni di abitanti e che ospita Brasile, Messico e Colombia: non solo le tre nazioni più popolose dell’America Latina, ma anche i paesi più colpiti al mondo dall’ultima ondata di virus. Sarà pur vero che gli Usa sono partiti con un ritardo drammatico a causa dei ritardi e della superficialità dell’amministrazione Trump nel fronteggiare la diffusione dei contagi. Ma è anche vero che gli investimenti pubblici americani sul vaccino non sono mai mancati e che la Cina ha comunque disegnato meglio la sua strategia. Secondo Clare Wenham, docente di politica sanitaria globale presso la London School of Economics, i numeri «mostrano le nuove tendenze della salute globale, dove assistiamo a un aumento del predominio cinese come potenza sanitaria».

Ma la vera bomba pandemica che in questi giorni preoccupa tutto il mondo è l’India. Il paese asiatico è oggi al centro della peggiore epidemia di Covid-19 al mondo. Domenica sono stati contati 403.738 casi aggiuntivi: è il quarto giorno consecutivo in cui si registrano oltre 400 mila casi, mentre il totale delle infezioni segnalate nel paese supera i 22 milioni di abitanti. Come ha ammesso il ministro della salute del paese, Harsh Vardhan, i pazienti indiani con Covid-19 in terapia con ossigeno stanno per raggiungere la cifra boom di un milione – circa un quarto di tutti i casi attivi – e altri 170 mila sono in ventilazione. Secondo i dati della Johns Hopkins University, l’India ha un tasso di positività al test di circa il 22%, il che significa che probabilmente non riuscirà nemmeno a intercettare e curare tutti i casi di Covid-19. Sempre nella giornata di domenica, il ministero della salute ha comunicato la morte di altri 4.092 pazienti: è la seconda volta consecutiva in cui il Paese ha registrato più di 4 mila morti in un solo giorno. L’India ha finora registrato circa 243 mila morti per Covid-19, il terzo numero di vittime più alto al mondo. L’Institute for Health Metrics and Evaluation dell’Università di Washington stima che entro agosto l’India potrebbe aver raggiunto 1 milione di morti.

Sulla gravità della situazione indiana è intervenuto in questi giorni l’autorevole rivista medica Lancet che in un durissimo editoriale accusa il governo indiano di aver ignorato le avvisaglie della seconda ondata, preferendo l’autocompiacimento per i risultati raggiunti, e di aver nascosto i dati Covid-19 alla comunità internazionale. Lancet definisce “imperdonabile” la strategia di Narendra Modi, il primo ministro indiano, e lo accusa di essere il principale «responsabile di una catastrofe nazionale autoinflitta». La catastrofe umanitaria indiana, già grave per sé, spaventa molto i paesi occidentali che nel frattempo hanno avviato campagne per la vaccinazione di successo: Usa, Uk e Unione europea temono che quella indiana possa diventare una bomba a orologeria che, in caso di esplosione definitiva, potrebbe travolgere le loro economie.

Proprio l’India, insieme al Sudafrica, è stata la voce principale di un gruppo di circa 60 paesi che negli ultimi sei mesi ha cercato di ottenere la cancellazione dei brevetti sui vaccini. Il 5 maggio scorso Joe Biden ha preso le parti di questi paesi giocando la sua partita diplomatica nello scacchiere sanitario ed economico globale. Ma la proposta di cancellazione è stata respinta da quasi tutti i governi europei (in testa la Merkel) che hanno chiesto piuttosto al presidente degli Usa di dare il via all’esportazione dei vaccini americani nel resto del mondo. Pare intanto che almeno un centinaio dei 164 stati dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) siano favorevoli alla cancellazione dei brevetti e si prevede che il mese prossimo un gruppo di esperti sulla proprietà intellettuale discuterà la questione. Se approvata, dicono i sostenitori, la rinuncia consentirebbe di aumentare la produzione di vaccini e fornirebbe dosi più convenienti per i paesi meno ricchi.

Nel frattempo, le capitali europee si stanno finalmente preparando a distribuire i loro vaccini contro il coronavirus. Nel giro di pochi mesi, l’offerta di vaccini in tutta l’Ue dovrebbe superare la domanda: a quel punto le dosi cominceranno a viaggiare verso i paesi meno fortunati. Fino ad oggi l’Europa è stata fortemente criticata per aver riservato il doppio delle dosi necessarie per immunizzare l’intero blocco dei paesi membri. E l’iniziativa di Biden di derogare alla protezione della proprietà intellettuale per i vaccini non fa che amplificare la pressione sull’Ue. Ecco perché gli stati europei stanno studiando il modo per massimizzare la loro diplomazia sui vaccini inviando dosi nelle regioni più rilevanti sul piano economico e strategico. In passato, il presidente francese Emmanuel Macron e la presidente della Commissione Ursula von der Leyen hanno contribuito al lancio di Covax, l’iniziativa dell’Organizzazione mondiale della sanità per la diffusione dei vaccini.

L’Ue è stata il principale sponsor finanziario dell’iniziativa fino a quando Joe Biden è entrato alla Casa Bianca e ha messo sul piatto 4 miliardi di dollari. Come spiega però il magazine Politico, «il problema è che la strategia alla base di Covax era quella di acquistare vaccini per tutti, ricchi e poveri, e distribuire uniformemente l’offerta globale. Quell’approccio mirava a garantire che tutti potessero vaccinare il 20% della loro popolazione, anche in luoghi troppo poveri per acquistare i vaccini o troppo insignificanti dal punto di vista geopolitico per riceverli attraverso la diplomazia dei vaccini». Ma questa strategia non ha funzionato. Inoltre, benché sia tra i più importanti esportatori di vaccini – oltre 200 milioni di dosi sono partite dal continente verso più di 40 paesi, ricchi e poveri – l’Unione europea non sta ottenendo alcun ritorno di reputazione da queste consegne. Adesso, con l’aumento dell’offerta di vaccini, la domanda incombente per Bruxelles è se incanalarli ancora attraverso Covax o perseguire una strategia propria, alternativa rispetto a quella americana e a quella cinese. Nella speranza di ottenere più credito per la propria generosità.

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