Quel progetto incompiuto
L’identità della gauche: tra pragmatismo locale e ideologia nazionale

L’errore più frequente nel commentare le recenti elezioni amministrative è cercare una spiegazione unica e onnicomprensiva. A Genova si è chiusa una lunga fase politica, iniziata oltre un decennio fa con la rottura interna al Partito Democratico determinata dalla scissione promossa da Cofferati incapace di comprendere le ragioni della vittoria di Paita alle primarie regionali. A Ravenna, al contrario, il centrosinistra ha confermato la consistenza di un radicamento profondo nel tessuto sociale e materiale.
Però la vera questione non è chi ha vinto ma come e perché sono maturate le scelte dei candidati Sindaco. Il confronto fra il profilo di Salis e quello di Orlando – candidato alle regionali solo un anno fa – mette in luce una radicale differenza di approccio. Non si tratta solo di nomi o di carriere, ma di cultura politica, una diversa visione della rappresentanza. E forse anche di una transizione generazionale. Qui emerge il punto decisivo: solo una cultura pragmatista può sostenere un convincimento democratico autentico. Essa, infatti, rinuncia all’autosufficienza delle certezze acquisite una volta per tutte e riconosce la voce dei cittadini come fondamento della legittimazione del potere. A livello locale, questo tipo di atteggiamento è più accessibile. Spesso non per scelta consapevole, ma per necessità. Insomma, l’evoluzione della realtà impone l’abbandono delle certezze derivate da schemi mentali.
A livello nazionale, invece, accade l’opposto. Il conflitto è più simbolico, i (social) media amplificano ogni differenza interna, l’arena pubblica favorisce posture identitarie, domina ancora un approccio (definito impropriamente) ideologico. A livello locale le dinamiche simboliche pesano meno, e la forza di una candidatura dipende dalla sua capacità di essere percepita come vicina, verificabile, utile, credibile, concreta. Al contrario, a livello nazionale, la leadership continua a fondarsi su una rappresentazione simbolica dell’identità. Se c’è un messaggio che arriva forte e chiaro da queste amministrative, è che alla sinistra italiana manca il coraggio di riconoscere l’insufficienza della propria cultura politica per comprendere e rappresentare la società di oggi. Eppure, questa consapevolezza era nelle premesse fondative del Partito Democratico: la necessità di superare i modelli novecenteschi, distinguere tra la funzione del partito e quella della scelta delle candidature alle cariche istituzionali, dando al partito il compito di organizzare il coinvolgimento degli elettori nella selezione dei programmi e delle candidature.
Quel progetto però è rimasto incompiuto. Non si è sciolto il nodo fondamentale: è il partito a proporre alla società un leader già deciso al proprio interno o è il partito a promuovere un processo aperto per far emergere, insieme alla società, il leader appropriato?
Detto in parole semplici: il prossimo candidato presidente del Consiglio del centrosinistra non può essere uno degli attuali leader di partito, già noti, già consumati. Deve essere il frutto di un processo partecipativo reale, che metta in gioco programmi, sensibilità, energie nuove. Un processo che ridia ai cittadini la sensazione di contare qualcosa, di essere parte di un progetto, di costruire senso.
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