Pochi giorni fa si è tenuta una bella riunione con parecchie persone nella redazione del “Riformista”. Probabilmente pochi sapevano che esattamente sotto la sede di questo giornale, in via di Pallacorda a Roma, il 28 maggio 1606 ci fu un delitto. Lo commise Michelangelo Merisi da Caravaggio che in una sorta di scontro tra due “squadre” uccise con la spada Ranuccio Tomassoni, rivale in amore (la vita di Caravaggio fu costellata di passioni e sensualità), voleva “solo” ferirlo ma la lama distrusse un’arteria vitale.

Il fattaccio accadde dove ora c’è un garage, mentre a quei tempi si trovava una grande sala ove si giocava alla pallacorda – una specie di antenato del tennis – che quella sera fu l’arena per lo scontro a sciabolate che finì in tragedia. Caravaggio riuscì a scappare, iniziando una lunghissima fuga che non conobbe fine se non con la morte. Il sommo pittore – come si sa – visse molti anni nel quartiere che oggi è la Roma politica, nel cuore della città seicentesca non ancora barocca, pullulante di plebaglia, donne di strada, osteriacce, la Roma perfetta per un ribelle come Caravaggio.

Per i veicoli di quella Roma passa con la sua fantasia e la sua bella prosa Vania Colasanti, giornalista di lunga esperienza, che ci regala questo “Inseguendo Caravaggio – Nei suoi luoghi e nei suoi quadri” (Baldini e Castoldi), un piacere per i tanti che adorano il Merisi, rievocando la sua triste esistenza nella peregrinazione continua tra Roma, Napoli, Malta, Siracusa, infine verso la sciagurata morte sulle coste della Maremma. Caravaggio era quest’uomo che lo storico seicentesco Pietro Bellori descrive con una punta di cattiveria: «Era egli di color folco, e aveva folchi gli occhi, nere le ciglia, e i capelli […] Non lasceremo di annotare li modi stessi nel portamento è vestir suo, usando egli drappi e velluti nobili per adornarsi; ma quando poi si era messo un abito, mai lo tralasciava, finché non gli cadeva in cenci. Era negligentissimo nel pulirsi; mangiò molti anni sopra la tela di un ritratto, servendosene per tovaglio mattina e sera».

Dopo il delitto, come detto, Caravaggio fugge e dipinge: Cristi, santi, volti di donne e ragazzi, drappi rossi, gioielli, frutte, piedi martoriati, facce smunte, cavalli, croci, frutta, sgozzamenti, un universo mai visto prima, una pittura che abbaglia e sgomenta. Lui, trasandato, sporco, irascibile, passionale, si sarebbe detto un “maledetto” se fosse nato negli anni di Baudelaire o appartenuto alla beat generation: ciò concorre al suo mito, nonché alla sua inimitabile pittura al tempo stesso fatta di luce e di buio. Colasanti si fa dunque “Virgilio” nel guidarci nei luoghi e nelle situazioni reali della vita del Merisi parallelamente alla rassegna del suo incredibile lavoro. E per noi (sia consentita una notazione personale) che abbiamo passato una vita per quelle strade l’emozione è ancora più grande.

Così Merisi gira per il Mediterraneo sempre scappando, forse anche da sé stesso, torna a Roma, vicino Roma, gli rubano i dipinti; egli è dunque senza più nulla, va come un pazzo alla loro ricerca, giunge esausto nei pressi dell’Argentario, a Porto Ercole, estrema tappa, a soli trentanove anni, di una vita assurda, ecco, è morto! Non è nemmeno chiaro dove sia stato sepolto, è una storia complicata. I dipinti ritornano, li possiamo vedere in tante città del mondo, andate a Napoli, a Malta, a Messina. Accendete la luce nella cappella Contarelli, in San Luigi dei Francesi, a due passi dall’attuale Senato. Camminate per Campo Marzio, qualcosa di quel genio brigantesco deve esserci ancora, nell’aria.