Si fa grande l’aspettativa sull’aiuto che potrebbero dare i test sierologici per il ritorno alla normalità della tanto sperata “fase 2”. Ma sull’argomento c’è molta confusione. Paola Salvatore, professoressa di microbiologia e microbiologia clinica della Federico II ha fatto luce si alcuni aspetti che riguardano i test sierologici.

COSA SONO – Si tratta di test rapidi su campioni di sangue. “Si attua sul siero che è la parte del sangue nella quale si ritrovano le proteine e quindi gli anticorpi che noi andiamo a ricercare con questi metodi perciò definiti sierologici”, spiega la professoressa. Sono di due tipi: il primo è  immuno-cromatografico, molto simili ai test di gravidanza. “Il principio è esattamente lo stesso – continua la docente – e si ottiene analizzando il sangue periferico. Si fa una piccola punturina sul dito e si fa cadere la goccia di sangue su una striscetta che è immuno-cromatografica e in una decina di minuti rileva la presenza degli anticorpi che possono essere della classe IgM e/o IgG. Se risulta positivo per la classe IgM, l’infezione è verosimilmente in atto. Se risulta negativo per la classe IgM e positivo per la classe IgG, è verosimilmente una infezione pregressa. Se sono positivi IgM e IgG, ci dobbiamo aspettare a breve una conversione delle IgM in IgG e quindi stare in una fase cosiddetta intermedia, quindi non troppo vicina al contagio quanto alla risoluzione”. Salvatore spiega che questi test non sono specifici e nemmeno hanno un’alta sensibilità. “Dalla comunità scientifica in questo momento sono sconsigliati sicuramente come presidio diagnostico. Così come lo sono tutti i test sierologici. L’unico presidio per fare diagnosi sul Coronavirus è il tampone”. Il secondo tipo di test sierologico è quello che si effettua con il sangue raccolto in provetta. “Si utilizzano tecniche diverse che sono o test di chemioluminescenza o immunoenzimatica. “Anche queste non possono essere usate per la diagnosi”.

LA DIFFERENZA CON I TAMPONI – Il Tampone è più affidabile perché cerca l’acido nucleico virale che è l’RNA, quindi effettua una ricerca diretta, al contrario dei test sierologici che sono tutti indiretti. “I test sierologici cercano la risposta del nostro organismo ad un’eventuale contatto con l’agente patogeno che in questo caso è il virus”.

A COSA SERVONO – Quello che i test sierologici possono portare è un risultato a carattere epidemiologico. Servono a fare uno screening di una serie di soggetti che magari vivono in comunità, o in cittadine più piccole o nello stesso ambiente di lavoro, per capire come e se sono state in contatto con il virus attraverso casi asintomatici o paucisintomatici. Oppure servono a comprendere meglio l’andamento della patologia in soggetti positivi. “Non possono certamente essere utilizzati per far andare una persona a lavorare – continua la docente – Non abbiamo delle evidenze numeriche significative per poterlo fare su questa patologia”.

IL PROBLEMA DELLA VALIDAZIONE – “I test sierologici sono usati moltissimo per esempio nel caso della sifilide – spiega Paola Salvatore – Ma qui abbiamo una metodica consolidata da anni. Per consolidare il metodo immunologico in questa particolare patologia, servirà uno screening della popolazione, ma non basta farlo una sola volta, ma ogni 15 giorni, con una frequenza consolidata. Quando le istituzioni dicono che il test non è validato, non significa che il test non è valido e quindi non utilizzabile dalla comunità scientifica. Ma semplicemente che non è stato validato su un numero sufficiente di pazienti per poter stabilire come sta realmente il paziente e quindi non possiamo trarre delle conclusioni da questi test”.

I VANTAGGI – Il test di screening è sicuramente più economico rispetto al tampone e meno rischioso per l’operatore che fa il test. Inoltre i test possono essere positivi anche nei soggetti asintomatici, a cui non verrebbe fatto direttamente il tampone. Infine c’è un vantaggio di tempo: per ottenere il risultato di un tampone è necessario molte ore, il test invece ha un risultato immediato.

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Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. È autrice anche di documentari tra cui “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.